Si svegliò con un’atroce fitta alla tempia sinistra. Si toccò e le sue dita furono inondate da un fiotto caldo, umido e rossastro. Era il suo sangue? Si guardò intorno attonito e sgomento. Sentiva solo il fresco alito del vento e il fumo acre che strappava lacrime dai suoi occhi. Intorno a lui un campo seminato di centinaia di corpi inerti e irrigato dal sangue.
Sentì aleggiare nell’aria l’alito della morte: un odore putrido e pungente penetrò le sue narici. Girò lo sguardo intorno soffermandosi sugli inespressivi e pallidi volti: esprimevano rabbia e stupore, suscitavano tristezza. La visione di quelle facce e dei corpi straziati non sembrò addolorarlo. Non riconobbe amici, non aveva mai visto, prima d’allora, nessuno di quegli uomini.
Guardò la sua armatura in maglia di acciaio ben temperato e finemente lavorato. Era dunque un soldato? Osservò attentamente i suoi piedi notando i lucidi stivali in cuoio da cui spuntavano degli schinieri d’acciaio.
Non aveva l’elmo e questo forse gli era costato la ferita alla tempia, o forse lo aveva perso, quando era stato colpito.
Non aveva scudo ma solo una spada con elsa in oro, guardia ben lavorata e l’impugnatura ricoperta da una lucida spirale di fine cuoio. Il pomolo recava, al suo centro, una splendida pietra azzurra: un grosso zaffiro dalla strana sagoma triangolare. La lama, in acciaio temperato e ben affilata, presentava incisa, su una faccia, una runa: un simbolo simile ad una R. Il peso e la bilanciatura permettevano che l’arma fosse brandita, indifferentemente, a una o due mani. Roteò, per qualche istante, la spada sopra la sua testa per saggiarne la maneggevolezza. La rinfoderò soddisfatto.
Frugò nel suo zaino e trovò un ritratto raffigurante una bellissima donna bionda. La guardò intensamente, si sforzò, ma non riuscì a riconoscerla. Lesse la dedica sul bordo del dipinto: “Dalla tua amata moglie Ezianne.”. Strizzò gli occhi, come se quel gesto riuscisse ad aumentare la sua concentrazione. Mentre cercava di ricordare, fu distratto dal trambusto di passi alla sua destra e da una voce, forte e gutturale, che gridò: «Ce n’è ancora uno vivo! Uccidiamolo!»
Il suo istinto di conservazione fu fulmineo. Afferrò lo zaino, ancora semiaperto, e iniziò a correre nella pianura sconfinata, riscaldata dal sole di fine estate. Procedette a grandi balzi per evitare di calpestare i molteplici corpi morti: i suoi stivali erano risucchiati verso il basso da quella viscida palude di sangue, rallentando la sua corsa e sparpagliando macabri schizzi tutt’intorno. Si arrestò per un attimo, ansimando. Girò lo sguardo, in ogni direzione, in preda al panico e riprendendo subito la corsa. Era in una grande steppa desolata e priva di ripari: sarebbe stato facile preda dei suoi inseguitori.
Cercò con affanno qualcosa che lo potesse nascondere. Sulla sua sinistra vide, in lontananza, alcune mura diroccate. Oltre di esse, si spandevano lingue di fuoco e fiotti di fumo denso e scuro, come il buio che aveva invaso la sua memoria. Vi si diresse correndo, aumentò la velocità nonostante fosse convinto di aver già raggiunto il limite molto prima. Notò lo squarcio nel muro, quando fu a breve distanza. Stava per attraversarlo, ma ci ripensò dubbioso: anche i suoi inseguitori l’avrebbero fatto. Forse lì dentro sarebbe rimasto in trappola. Lo avrebbero preso. Qualche metro prima della spaccatura, egli penetrò il fumo denso, che arrivava dalla breccia, spinto dal vento. “Un colpo di fortuna”, pensò. Nello stesso istante, nascosto alla visuale degli inseguitori, si gettò a terra coprendosi con alcuni cadaveri. Trattenne il fiato. I sei uomini, con le spade sguainate, arrivarono pochi attimi dopo.
I soldati indossavano un’armatura, in cuoio rigido, tempestata di borchie metalliche, stivali in cuoio e pantaloni di pelle scura. Il colore rosso sgargiante dei loro mantelli colpiva gli occhi come strali di un fulmine: un bordo bianco li incorniciava delimitandone i confini con l’aria, smossa dal vento, su cui galleggiavano sinuosi. Il bianco collo dei mantelli era in parte coperto, dietro la nuca, dalla tonda propaggine degli elmi di cuoio duro.
Il capitano, al comando del plotone, ostentava un mantello rosso cupo bordato di nero. Il lembo dell’elmo di cuoio che copriva la sua nuca, al contrario dei soldati, aveva due forme appuntite e bordate da lamina metallica. Egli emise un grido gutturale indicando con la spada protesa in avanti: «C’è una breccia nel muro; deve essere fuggito di lì.»
Li vide oltrepassare la spaccatura. Appena spariti dalla sua vista, scansò, con gesto di ribrezzo, la disgustosa coperta. Iniziò a correre in direzione opposta. Corse con quanto fiato avesse in gola. Corse trafelato senza voltarsi mai indietro. Chissà per quanto tempo filò: n’aveva perso la cognizione. Si accorse che il sole era già tramontato e l’oscurità incombeva quasi ad equilibrare il buio che si era impadronito della sua mente. Decise di diminuire l’andatura: fu rallentato, oltre che dalla stanchezza, anche dai morsi della fame e della sete. Da quando non mangiava? Non era questa, però, la domanda che più lo angustiava, non aveva il coraggio di chiedersi “Chi sono io?”
La pianura, un’immensa steppa che si ripeteva monotona passo dopo passo, lasciava ora il posto a leggeri declivi. Aveva corso in direzione del sole morente. Decise di continuare a camminare verso ovest, anche se non sapeva da chi e dove ciò lo avrebbe portato. In lontananza vide le cime d’alcuni alberi e vi si diresse con maggiore lena. Nel bosco avrebbe potuto meglio nascondersi. Avrebbe potuto cercare qualcosa da mangiare e da bere; magari un posto tranquillo in cui riposare. Aveva superato una ventina, o forse trenta, faggi dalle foglie giallo-rossastre, il caratteristico colore dell’incipiente autunno, quando sentì il gorgoglio delle acque di un fresco ruscello. Vi si gettò sprofondando la testa nell’acqua gelida. Si senti riavere. Nello stesso istante avvertì una fitta alla tempia sinistra. Aveva dimenticato la ferita. Si rese conto che, per fortuna, non sanguinava più. Sembrava solo una leggera lacerazione.
Si specchiò nell’acqua limpida del torrente. Era un uomo robusto, sulla trentina, un metro e ottantacinque circa d’altezza. Capelli lunghi e neri e occhi scuri, una leggera barba di colore più chiaro sul volto. L’orrore s’impadronì, ancor più, di lui, quando non riuscì a riconoscere nemmeno il suo volto: era la prima volta che lo vedeva.
Frugò nello zaino per cercare qualcosa con cui fasciarsi e, per fortuna, trovò il necessario. Insieme al ritratto che aveva già visto, tra gli altri oggetti, c’era una misteriosa ampolla con un liquido scuro e violaceo di cui ignorava la natura, un coltello e una pietra focaia.
Il colore viola portò luttuosi pensieri nella sua mente; riaffiorarono le atroci immagini della piana della morte da cui era fuggito. Sentì una stretta al cuore: chi erano tutti quei cadaveri? L’orrore s’impadronì ancor più di lui, quando comprese che avrebbe potuto esserci anche lui tra quei corpi straziati. Cercò di distrarre i suoi pensieri prendendo l’ampolla tra le mani. L’avvicinò agli occhi provando a guardare in trasparenza: il liquido scuro non permetteva al suo sguardo di oltrepassarne la superficie. Sembrava voler cercare all’interno di quel liquido i segreti recessi della sua mente. Provò ad agitare la boccetta notando, con stupore, che il movimento delle particelle liquide causò un repentino cambiamento del colore: ora il fluido era rosso e denso come il sangue. La sua mente si smarrì risucchiata dentro quell’ampolla, attirata in essa come una calamita: di nuovo la morte sottolineò i suoi pensieri. Ripensò alla palude di sangue che lambiva i corpi martoriati di quei cadaveri a lui ignoti.
L’orrore lo prese nella sua terrificante morsa, i suoi muscoli si contrassero. Smise di agitare l’ampolla, ma continuò a fissarla con occhi spenti. In pochi istanti il sangue sembrò trasformarsi in qualcosa che potesse portargli ristoro e conforto: sembrava un succo d’arancia, almeno così era divenuto il suo colore. La metamorfosi, però, non era finita: ora il colore del fluido era sbiadito in un giallo che parve portare al suo palato l’aspro sapore dei limoni. Poi la piccola boccetta, davanti ai suoi occhi, si confuse col verde dell’erba e delle piante del sottobosco. Dai colori della morte a quelli della vita, sembrava che la strana fiala potesse riportare la speranza nel suo cuore, in particolare, quando assunse l’azzurro colore del cielo. Guardò in alto in cerca del firmamento, ma era nero e buio come la morte che attanagliava la sua mente. Lo sguardo si posò di nuovo sull’ampolla e l’angoscia crebbe dentro di sé: il liquido era tornato a portare, col colore viola, luttuosi pensieri nella sua testa.
Ripose l’ampolla cangiante nello zaino scuotendo il capo perplesso: ora aveva di nuovo il suo colore violaceo originario. All’interno dello zaino c’erano anche una decina di monete d’oro e alcune d’argento e di rame. Vide poi una strana chiave con la sezione dell’anima a forma di stella triangolare, almeno credeva si trattasse di una chiave. Il ritrovamento della pietra focaia sembrò rallegrarlo. Avrebbe acceso un fuoco, pur con tutti i rischi che ciò comportasse. Era convinto che i suoi cacciatori avessero, già da tempo, rinunciato ad inseguirlo. Si augurò che fossero ormai lontani.
Oltrepassò, con pochi balzi, il ruscello per andare a caccia addentrandosi ancor più nella fitta foresta. Cercò qualche tana di lepre. Il terreno iniziava a farsi ripido, la foresta si trovava con tutta probabilità sulle falde di una montagna. L’iniziale faggeta, mista ad altre latifoglie, era ora sostituita da una fitta foresta di conifere, per lo più abeti e larici. Decise di tornare indietro verso il ruscello.
Un improvviso rumore tra le foglie, disseminate sul terreno, lo fece sussultare. L’essere strisciò rapido e impaurito cercando di allontanarsi dalla figura umana. Un rapido colpo di spada pose fine alla sua fuga recidendo di netto la testa del rettile: l’uomo aveva trovato la cena. Afferrò la viscida preda tra le mani in un brivido di disgusto, ma continuò a stringerla, mentre gli ultimi spasmi di vita contraevano le spire del serpente. Ritornò sulle rive del ruscello e accese abilmente il fuoco con la pietra focaia: per fortuna non aveva dimenticato come usarla. Col coltello scuoiò il serpente e, con un ramo appuntito, realizzò un rudimentale ma efficace spiedo per cucinare la carne. Riuscì così a calmare i crampi della fame.
Rifocillatosi, spense il fuoco seppellendolo sotto un discreto strato di terra. Decise che avrebbe dormito tra i rami di un grosso albero. Si arrampicò e si sistemò, con cura, sopra un grosso ramo con le spalle appoggiate al tronco.
I raggi della luna piena rischiaravano le cime degli alberi e penetravano con difficoltà il sottobosco. Lì in alto si sentiva al sicuro. Nella calma della notte, cullato dal canto dei grilli, guardò le stelle nel limpido cielo e iniziò a pensare: se avesse incontrato qualcuno, forse avrebbe dovuto dire il suo nome. Ma qual era il suo nome? Decise che da quel momento si sarebbe chiamato Nim, senza un cognome, Nim e basta. Si chiese perché avesse scelto quel nome, ma non trovò risposta.
Poi, colto da uno strano impulso, prese il ritratto della donna: Ezianne si chiamava. Forse era sua moglie, ma forse anche no, visto che non conosceva la provenienza di quel dipinto. Decise che era proprio bella, ma colse una luce triste nei suoi splendidi occhi azzurri, una sensazione che non riuscì a definire. Il suo perfetto ovale era adornato da una folta e fluente chioma bionda. Le sue carnose labbra sussurravano pensieri di lussuriosi desideri.
Per quanto si sforzasse, non riuscì a cogliere niente di familiare in quel volto, né il nome Ezianne sembrò portargli alcunché alla memoria. Si assopì con questi pensieri e sognò.