Il sole raspò le montagne facendo capolino tra le cime. Osservò, compiaciuto come un pittore che guarda il suo dipinto, l’artistica opera dei primi e assonnati raggi di luce proiettati sulla battigia.
Nim riconobbe la riva dell’oceano: si trovava in un accampamento. Sdraiato su un giaciglio, ricavato tra la fine sabbia, osservò il volto addormentato di una giovane donna bionda: a qualche passo da lui, la vide agitarsi stringendo e avvolgendo attorno a sé una coperta bruna. Più in là dormiva, sulla nuda terra, un uomo alto, robusto e con pochi e radi capelli sulla testa.
Il falò, acceso la sera prima, era ormai un cumulo di cenere da cui filtrava solo qualche piccolo rivolo di fumo.
Nim si levò in piedi, in silenzio, e andò a scrutare il mare. Aspettava un veliero, pur non sapendo il perché. Una calma piatta veniva dal mare, nessuna vela: all’orizzonte il silenzio, rotto, solo a tratti, dal ripetuto suono della risacca. Ruotò lo sguardo verso nord e dalla parte opposta, ancora immoto silenzio.
Il movimento arrivò invece dall’accampamento: l’uomo e la donna parlavano tra loro, si erano appena svegliati.
Si rivolse ai due come a vecchi amici: «Non ho visto ancora la nave», disse loro scuotendo la testa e con tono deluso.
«E quella cosa sarebbe?» indicò la donna, mentre il vento sollevò i suoi capelli dorati come il grano d’estate.
Un vascello solcava le onde, con le bianche vele gonfie che contrastavano l’azzurro del mare e del cielo. Puntava deciso nella loro direzione. Giunta a cento metri dalla costa, la nave si fermò caracollando. Fu gettata l’ancora e calata una scialuppa. Scesero, al suo interno, tre marinai, che si disposero ai remi. A loro si aggiunse, poi, un omone con la barba bianca. A giudicare dal portamento e dall’aspetto, questi sembrava essere il comandante della ciurma.
La barca si mosse leggera sul mare e in pochi attimi si arenò sulla riva con un profondo scricchiolio. Ne discese il capo ciurma che si avviò, a grandi passi, verso l’accampamento. L’omone allungò una mano spandendo un largo sorriso: «Buongiorno, sono il capitano Mengis, Martin Mengis», si affrettò a dire.
«Piacere, capitano, io mi chiamo Nim», rispose stringendogli la mano con energia.
«Ho l’ordine di portarvi a Limonhamn», disse asciutto e senza tanti preamboli.
«Limonhamn? E cosa sarebbe?» domandò, curiosa, la donna bionda.
«E’ un porto di Tanh Hamn, la Terra di Nessuno», rispose Mengis, volgendo lo sguardo verso il nuovo interlocutore.
«Ne sappiamo quanto prima...», ribatté la donna e stava per continuare, ma Nim la interruppe: «Quando possiamo partire, capitano?»
«Anche subito, se volete!», rispose l’omone allargando le braccia.
Raccolsero in fretta le loro poche cose e montarono nella scialuppa insieme al capitano. Infine salirono sulla nave che gonfiò le vele facendo rotta verso la Terra di Nessuno.
Il viaggio non fu lungo, almeno così sembrò, e quando il marinaio di vedetta gridò “terra”, tutti si affrettarono sul ponte. Videro così Limonhamn: il porto si trovava in una profonda insenatura. Sulla piatta sponda destra si ergeva una roccaforte circondata da un bel nugolo di case basse e rade. La sponda sinistra invece saliva in un dolce declivio coperto da lussureggiante vegetazione. La collina si prolungava fin dietro il porto e qui era sommersa da una verde ed estesa foresta di grandi alberi, per lo più latifoglie. La nave fluttuò leggera in mezzo alle due darsene, che s’incrociavano a lisca di pesce, costituendo un sistema di frangiflutti, per la sicurezza delle navi ancorate nel porto.
Nim e i suoi due amici scesero a terra, sulla banchina del porto, subito dopo l’attracco della nave. Il capitano li salutò cordialmente senza tralasciare una raccomandazione: «Questa è la Terra di Nessuno. Qui trovano rifugio gente d’ogni specie e razza, delinquenti sfuggiti alla loro pena, esuli politici e tanti altri. Non ci sono leggi e il pericolo è all’ordine del giorno».