Nim fu ridestato dal sommesso cinguettio degli uccelli, mentre un tiepido sole cercò di ritemprare le sue membra intorpidite. L’allegria dei volatili, che pervadeva la fitta foresta, non seppe però contagiarlo.
La sua mente era impegnata ad analizzare il sogno. Riusciva a ricordarne parti frammentarie: la destinazione di Limonhamn era ben impressa nella sua mente. Ricordava bene anche la donna bionda, che egli associò ad Ezianne. Questa convinzione si spense, ben presto però, nella sua testa, per lasciare il posto al pensiero contrario: no, era quasi certo che la donna del sogno non fosse la stessa del ritratto. Aveva solo una certezza: quella di non conoscere, o almeno non ricordare, nessuna delle due. Gli risultava del tutto ignoto anche l’uomo alto, che si accompagnava alla donna. Del capitano della nave non ricordava, poi, nemmeno il nome, ma forse questo non era importante. Non riusciva a dare una spiegazione al viaggio verso la Terra di Nessuno. Quella spedizione sembrava una fuga: anche ora stava fuggendo. Fuggiva da uomini che lo braccavano, ma non sapeva il perché. Fuggiva da un passato che non riusciva a ricordare.
Un istinto fermò i suoi pensieri: alzò lo sguardo verso il cielo e vide, in alto, il solenne roteare di un’aquila. Il rapace sembrò condividere il suo sguardo e si gettò in picchiata verso di lui. All’ultimo istante, però, il maestoso uccello virò, sfiorando le cime degli alberi, e si allontanò con ampi colpi d’ali.
Senza rendersi conto del perché, Nim percepì in questo fatto un segno funesto. Saltò giù dall’albero, con il cuore in tumulto, dimenticando di essere appollaiato sui rami più alti. Nel balzo rischiò di farsi seriamente male, ma, per sua fortuna, atterrò su un cespuglio del sottobosco che attutì l’impatto.
Il drappello di soldati, che aveva inseguito Nim, tornò all’accampamento oltre il fiume Jokeld.
Il corso d’acqua era il più lungo della Terra di Grund. Nasceva nell’impervia zona montagnosa della Catena Settentrionale. Si originava da una delle due Cascate Gemelle, dall’altra nasceva invece il fiume Narn. I due impetuosi torrenti percorrevano, quasi a braccetto, un breve tratto parallelo verso sud per poi dividersi definitivamente.
Lo Jokeld abbandonava il gemello, curvando verso oriente: attraversava la cittadina di Ingbrook e sfociava, dopo un lungo cammino e l’apporto di diversi affluenti, nel Mare di Pect. Il Narn si avviava invece in direzione opposta, verso il tramonto, sfociando nel Mare di Grund, ad occidente.
I due fiumi tagliavano in tre fette la Terra di Grund. Le terre nordoccidentali, dal clima temperato, che erano il cuore della nazione; qui si trovava la capitale Filla. La steppa nordorientale di Xer, una zona fredda e desertica popolata, per lo più, da tribù nomadi e barbare. Infine la zona centromeridionale, che risultava la più estesa delle tre ed era attraversata dalla Grande Silva, una delle foreste più maestose della Dusdonia, l’intero mondo conosciuto.
Il generale Kaf Kep Nay, soprannominato Testa di Pietra, accolse i soldati nella sua tenda emanando un grugnito. Egli era un nay tan, appartenente cioè alla razza dei capi. Nelle loro vene scorreva sangue nobile; si trattava di uomini grandi, alti intorno ai due metri, estremamente forti e dalla caratteristica pelle grigio-azzurra. Avevano grandi orecchie con lobi appuntiti; occhi piccoli e feroci con iridi normalmente scure e dalla cornea azzurra, solcata da venature blu. Il generale aveva, in maniera abbastanza eccezionale, iridi di una tonalità verde intensa e dei chiari, stopposi e corti capelli.
I soldati erano dau tan, la razza dei miseri. Il valore delle loro vite era considerato pressoché nullo dai nay tan. Questi erano più simili alla razza fillicena che popolava la Terra di Grund. Avevano altezza e corporatura affine, ma la pelle, a differenza dei filliceni, aveva un caratteristico colore grigio pallido.
La gerarchia dei diritti e dei doveri, secondo la razza dei capi, aveva una logica semplice: gli uomini liberi prevalevano sugli schiavi, i maschi sulle femmine, i cittadini sugli stranieri, ma soprattutto i nay tan sui dau tan.
El Sit Dau era il capitano del piccolo drappello: il suo grado era dimostrato dall’elmo dotato di due punte posteriori e dal mantello bordato di nero.
Egli riferì con voce roca e grave: «Abbiamo raso al suolo la città di Ingbrook. I grundiani sono tutti morti! Abbiamo avuto molte perdite, ma i tremila soldati filliceni sono tutti...» La sua voce ebbe, però, un tremito nel pronunciare l’ultima parola. Il capitano deglutì cercando di mandare subito giù il groppo che gli aveva annodato la gola, quindi concluse con gran fatica: «...morti.»
Ingbrook era un attivo porto fluviale, costruito sulla sponda occidentale del fiume Jokeld. Si trovava al limitare della Steppa di Xer, la distesa semidesertica situata nella parte orientale della Terra di Grund. La città era stata appena distrutta dai tamrai, appellativo usato per i soldati e gli abitanti dell’impero Tanh Man Ra di cui il drappello faceva parte.
Il generale si girò pensieroso, volgendo le spalle al capitano: guardò fuori della finestra e rimase silenzioso. I soldati e il loro capitano guardarono, in assoluto silenzio e trattenendo quasi il respiro, svolazzare i bordi in oro del drappo che copriva le spalle del generale. Nel mantello vi era disegnato, sempre in oro, lo stemma dell’impero: un sole dai molteplici raggi appuntiti come stiletti.
L’elmo, con quattro punte posteriori, simbolo del grado di generale, copriva in parte il collo del mantello marrone scuro. Infine il generale ruppe il silenzio e, con voce suadente, ma senza voltarsi, parlò al subalterno: «Capitano, saresti così gentile da mandare a chiamare Dan Hek, il mio tamzin tuk.»
Un brivido percorse la schiena del capo drappello, nel sentire il nome dello stregone. Il capitano fece, in ogni modo, un cenno ad uno dei soldati e questi, dopo un lieve inchino, uscì per andare a cercare il mago.
I tamzin tuk erano potenti stregoni e appartenevano, come tutti i maghi, alla razza dei tua tan, antica quanto il mondo. Ormai, però, questa razza era quasi estinta. Essi non avevano niente delle altre due razze dell’impero: il loro aspetto era esile e gracile. La pelle di un colore bianco pallido, gli occhi avevano pupille rosse e cornee bianche, i capelli erano lunghi e canuti, fin da giovani. Essi non avevano bisogno di corpi possenti. La loro forza, il kuwhank, scorreva nelle vene e risiedeva nella mente.
Pronunciare la parola «tua», per i superstiziosi tamrai, era considerato molto pericoloso; per questo il nome dei maghi si concludeva senza appellativi.
Quando il soldato tornò, accompagnando lo stregone, il generale Testa di Pietra si rivolse con un crudele sorriso verso il capitano. Appoggiò la sua mano sinistra sulla spalla del soldato e parlò con voce calda e suadente: «Allora, caro mio fedele e devoto guerriero, mi dicevi che i filliceni sono tutti...», e calcò la voce sulla parola tutti, «...morti?»
El Sit Dau iniziò a balbettare, sapeva che non avrebbe potuto mentire al cospetto del mago. «No, mio generale, purtroppo uno si è salvato ed è fuggito!», disse scuotendo il capo e abbassando gli occhi.
Il generale si allontanò di qualche passo, voltando di nuovo le spalle al capitano. Poi tuonò con voce irata e spaventosa: «Stai dicendomi, che vi siete fatti scappare un filliceno, e magari, proprio quello che doveva essere soppresso a tutti i costi?» La sfuriata del generale si concluse con uno scatto; si girò e sguainò la spada e con un tremendo e inaspettato colpo della lama recise la carotide dell’attonito capitano.
«Restituisco la tua stupida e inutile anima a Uahn Keimat, nostro Signore della Morte», proferì con disprezzo rinfoderando l’acciaio insanguinato.
Il capitano tamrai si accasciò a terra, con un rantolo, sotto gli occhi pieni d’orrore dei compagni. Un ultimo fiotto d’aria fuoriuscì dalla trachea, anch’essa recisa di netto. Il gorgoglio segnò la fine dell’esistenza del dau tan.
Il perfido generale si rivolse, imperioso, verso il soldato che aveva condotto il mago: «Tu! Come ti chiami?»
«Mi chiamo Zor Kul Dau, mio Uahn!», rispose il soldato mettendosi sull’attenti e col petto in fuori. Egli era calvo, una eventualità abbastanza remota per i dau tan, e portava lunghi baffi castano scuri spioventi verso il mento.
«Spero, per il tuo bene, caro Zor Kul Dau, che tu sappia fare meglio di quell’inetto», disse accompagnando le parole con un cenno di capo in direzione del soldato esanime al suolo, poi continuò: «Prendi con te una decina di uomini e segui le tracce del filliceno. Se ci tieni alla tua inutile vita, egli non deve assolutamente raggiungere vivo Filla, la capitale della Terra di Grund. Mi sono spiegato? E portate via questo...», e indicò il cadavere, senza pronunciare altro, con la voce bloccata dal disgusto.
Zor Kul Dau si batté il pugno sul petto, mentre due soldati afferravano il cadavere per le braccia trascinandolo via. Poi tutti i soldati tamrai uscirono veloci dalla tenda.
Il generale scosse la testa amareggiato. Guardò lo stregone intensamente e gli parlò con occhi sicuri: «Voglio che tu trovi il filliceno. Non mi fido di quegli stupidi soldati.»
Nel Than Man Ra, la più grande nazione delle terre conosciute dell’intera Dusdonia, i tamzin tuk erano i maghi della mente. Erano stregoni in grado di controllare, con il loro fluido ipnotico, le menti delle persone e degli animali. Potevano ordinare loro qualsiasi cosa e ben pochi riuscivano a resistergli. I loro poteri erano, però, nulli contro la razza nay tan di cui il generale faceva parte. Gli stregoni temevano la forza e la crudeltà della razza dei capi.
Il potere di dominio delle menti, da parte degli stregoni, si affievoliva con la distanza fino a spezzarsi del tutto. Il controllo sugli animali, dotati di cervello inferiore, poteva però arrivare anche a chilometri di lontananza.
Dan Hek era uno stregone relativamente giovane e aveva ancora capelli corti e scuri che avevano però abbandonato la parte alta della fronte. Aveva sopracciglia scure e cespugliose che mettevano ancora più in risalto le iridi rosse, caratteristiche della sua razza. Era uno dei pochi tamzin tuk che non amava portare la barba: il suo viso era sempre perfettamente rasato, sembra ad opera di un incantesimo che aveva lanciato su sé stesso. Il tua tan si affacciò ad una finestra della tenda, sollevò le braccia e il volto verso il cielo. La lunga tunica scura, che portava chiusa davanti da una lunga fila di bottoni metallici e legata in vita con una catena d’argento, seguì il movimento delle braccia. Dan Hek socchiuse gli occhi e iniziò un silenzioso bisbiglio, come se stesse pregando. Poco dopo un’aquila si posò sulla soglia della finestra battendo energicamente le ali per atterrare. Il mago le parlò con la voce della mente, le ordinò di cercare il filliceno e di tornare a riferirne la posizione. L’aquila volse la testa irrequieta in varie direzioni poi spiccò un poderoso balzo e volò via.
E dopo qualche ora essa tornò. Dan Hek ne scrutò la memoria e vide il soldato nemico.
«Il filliceno si trova nel Bosco di Eswold, poco a nord di Caer Belfrot», riferì lo stregone al generale, poi ipotizzò: «Forse cerca di raggiungere la fortezza.»
«Farebbe il nostro gioco», si compiacque il generale in un risolino maligno: «Caer Belfrot è già in mano a miei uomini fidati. Credo invece che tenterà di attraversare il bosco per raggiungere Filla, per vie poco battute. Ma, a piedi, impiegherà almeno un giorno per farlo», assicurò il generale.
Si sedette quindi dietro la scrivania e trasse una pergamena da un cassetto. Vi vergò sopra poche parole e consegnò il foglio al mago: «Manda l’aquila a portare questo messaggio ai miei soldati.»
Nim aveva ripreso a viaggiare verso ovest. Non sapeva dove stesse andando, aveva preso la direzione solo perché lo allontanava dalla piana della morte. Aveva lasciato alle spalle la foresta di latifoglie e ora saliva il pendio addentrandosi sempre più nel bosco di abeti. Il fitto sottobosco, ricco di ginepri e solcato da ampie asperità rocciose, gli impediva di andare più spedito.
L’aquila continuava a roteare nei meandri della sua mente provocando un rigurgito continuo di angoscia e disperazione. Non riusciva a cancellare dalla sua testa l’immagine di un coniglio braccato da un branco di lupi famelici. Era sempre più convinto d’essere come quel coniglio e che feroci cacciatori lo inseguissero con determinazione e spietatezza.
Camminò tutto il giorno senza mai fermarsi. In dei momenti si sorprendeva a correre con il fiato rotto dall’affanno. Decise di gettare via tutte le cose ingombranti e pesanti che aveva addosso: gli schinieri furono tra i primi oggetti sacrificati. Li scaraventò a terra soddisfatto, nella convinzione di poter andare più veloce.
Camminò buona parte di quella notte di plenilunio, finché non crollò esausto e cercò riparo in una piccola grotta. Il buio e l’umidità del posto lo oppressero, ma evitò di accendere il fuoco. Non mangiò, non andò a caccia, in quel momento sentiva di essere lui la selvaggina. Non riuscì a prendere sonno e non riuscì nemmeno più a pensare. Era, decisamente, in una fase no. La fatica della giornata si fece, però, sentire e, seppur per piccoli istanti, fu domato dal sonno. In quei brevissimi attimi, che si dilatavano nel sogno, rivedeva il veliero, la donna bionda, il porto di Limonhamn, in un susseguirsi confuso e senza senso. La situazione stessa, che stava vivendo, sembrava senza senso. Forse si trovava già dentro un sogno, anzi un incubo. Forse bastava riaprire, con forza, gli occhi per uscirne fuori.
Il ghigno di Zor Kul Dau, il capo del drappello tamrai, s’illuminò di soddisfazione, quando trovò il fuoco del bivacco e, ancor più, quando notò, in lontananza, il luccichio degli schinieri. Era riuscito a trovare le tracce del filliceno che sembrava ignorare di essere seguito, poiché nulla faceva per nasconderle.
Il sole era ancora addormentato, dietro un cielo plumbeo, quando Nim si rimise in cammino. Il tempo cupo aveva accresciuto il suo malumore. Il leggero respiro del vento contrastava la sua marcia, in maniera sufficiente per infastidirlo.
L’aria di fine estate era diventata fredda a causa del vento e dell’altitudine in cui si trovava. Nim valutò di aver risalito buona parte del pendio della montagna. Volgendo lo sguardo indietro, oltre le cime degli alberi, scorse l’ampia distesa pianeggiante che aveva lasciato il giorno prima. La piana d’erba semisecca si perdeva all’orizzonte mescolandosi con la leggera foschia che la separava dall’azzurro del cielo. Pensò di salire su un albero per cercare di capire meglio dove si trovasse e cosa avesse lasciato alle sue spalle.
Si arrampicò veloce su un grosso larice. Posò una mano sulla fronte per aiutare i suoi occhi nell’osservazione: aveva una vista acutissima e, da quel ramo in alto, notò subito, in direzione del sole nascente, il fumo che saliva leggero ed etereo verso il cielo. Un bivacco, pensò: quasi di sicuro si trattava dei suoi inseguitori.
Non riuscì a valutarne la distanza: migliaia, centinaia o forse decine di metri!
L’orrore e la rabbia si impadronirono della sua anima. Si diede molte volte dello sciocco. Non aveva pensato a cancellare le proprie tracce.
Forse i suoi cacciatori avevano già lasciato il fuoco del bivacco, forse erano ancora più vicini, forse lo avevano già accerchiato.
Il cuore iniziò a martellare forte, si sentì mancare e rischiò di cadere dall’albero. Scese in fretta a terra e cercò di cancellare, alla meglio, le proprie impronte. Iniziò, di nuovo, a correre verso ovest. Si fermava, di tanto in tanto, per cercare di eliminare qualche segno del suo passaggio. In quel momento gli parve essere diventato un elefante che lasciava un’enorme scia dietro di sé. Gli sembrò che stesse dicendo agl’inseguitori: “Sono qui! Venite a prendermi.”
Sentì la solitudine opprimerlo. Sentì l’ira salire dal fondo delle sue viscere. Sentì infine, davanti a sé e in lontananza, il fragore di una cascata. Aveva appena superato il punto più alto della piccola montagna: ora correva in discesa. Il rumore, che arrivò, come iniziale brusio, alle sue orecchie, sembrò, in un primo momento, rincuorarlo. Nel mormorio della cascata, Nim colse la fine della solitudine, sembrò poter trovare in essa un’amica. Sembrò nell’acqua poter trovare ristoro alle sue fatiche. Sembrò con l’acqua poter spegnere il calore del suo affanno e cancellare l’odore del sudore.
Questi sentimenti, però, svanirono come la cera consunta di una candela, al loro posto subentrò la paura. La sua mente, tornata razionale, pensò, con orrore, al serio ostacolo che il fiume avrebbe posto ai suoi passi. Stava cacciandosi in una trappola: se non fosse riuscito ad attraversare il corso d’acqua sarebbe stato spacciato.
Capì che, a quel punto, non poteva tornare più indietro. Poteva, però, correre allontanandosi dai suoi inseguitori e anche dalla cascata. Il fragore dell’acqua guidò la sua piccola deviazione.
Non aveva fatto molta strada, nella nuova direzione, quando uno strano fenomeno lo preoccupò, non poco. Il rumore della cascata proveniente dalla sua destra si trasferì anche nell’orecchio sinistro. Il brontolio che percepiva inizialmente si attenuò, mentre il nuovo, quello davanti a sé, pian piano gorgogliò, ruggì e infine rimbombò.
Com’era possibile?
La risposta non tardò ad arrivare: era infine giunto alla fine della foresta. Davanti a lui una gola scavata nella roccia. Nei profondi meandri di essa scorreva un fiume dalle acque rapide e spumeggianti. A monte una grande cascata, a valle un’altra cascata di simili dimensioni.
In quell’istante rivide il coniglio braccato dai lupi, poi si sentì ancor peggio: era diventato un topo intrappolato dalla tagliola. Un gatto, con i muscoli tesi e pronto al balzo, era apparso, come un fantasma, dietro la sua schiena.
Si rese conto, con orrore, che la profonda e larga gola era invalicabile. Nella sua mente realizzò l’unica possibilità: tuffarsi giù in mezzo alla spuma bianca. Stimò l’altezza e il suo cervello suggerì che si trattasse di un suicidio. Iniziò a togliersi l’armatura, nonostante il pensiero negativo. Nascose la cotta di maglia, insieme allo zaino e alla spada, sotto un fitto cespuglio di ginepri. Guardò di nuovo in basso il nastro d’acqua spumeggiante: la sua mente non abbandonò la convinzione precedentemente maturata, anzi la rafforzò.
Capì che il tempo a sua disposizione era scaduto e che non aveva altre possibilità di scelta, quando l’urlo gracchiante di uno dei soldati arrivò alle sue orecchie, coprendo, per un istante, il rumore delle cascate: «Il filliceno è laggiù! Uccidetelo!»
«Filliceno!» la parola rimbombò nella mente di Nim e sembrò paralizzarlo per un lungo istante: «Sono un soldato filliceno!»
Guardò di nuovo giù. Cercò, febbrilmente, un punto più propizio al tuffo, ma non trovò altro che sofferenza: sentì uno schiocco che fermò il tempo. I suoi pensieri si spensero, soppressi da un profondo dolore alla spalla destra, subito dietro la scapola. Un istante dopo un altro dolore, ancor più fitto, si accompagnò molto vicino al primo. La vista si annebbiò e le gambe mancarono. Aveva imparato a volare: sì, stava volteggiando nel vuoto. Forse la sua anima stava tornando agli dei.
«Il filliceno è infine morto...», disse Zor Kul Dau con un ghigno di soddisfazione, mentre seguiva, con lo sguardo, il volo del nemico nel vuoto, «...trafitto dalle nostre frecce.»
E questo ripeté al cospetto di Kaf Kep Nay. Il perfido generale volse il suo sguardo verso lo stregone per avere conferma che il soldato non mentisse. Quando il tamzin tuk annuì, il generale si rasserenò e tirò un sospiro di sollievo. Nello stesso tempo un crudele lampo illuminò i suoi occhi, accompagnato da un sorriso malefico.