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Firenze, 21 Dicembre 2024 (Sabato)
LE SPADE DI SINRASIL

Capitolo 4
Ecyl

Ecyl sistemò con cura la selvaggina sulle bisacce della sella. La ragazza poteva tornare da suo padre con piena soddisfazione. Montò a cavallo con il cuore contento: la battuta di caccia era andata bene. Portava a casa, nell’umile capanna situata in Pewick, un ottimo bottino.

Pewick era uno dei piccoli, e numerosi, villaggi sparsi nel vasto territorio della Terra di Grund. Spesso questi villaggi erano isolati tra loro da foreste e corsi d’acqua. Il collegamento tra i piccoli centri avveniva con impervie strade, in dei punti solo abbozzate. Pewick non faceva eccezione, sorgeva ai margini del Bosco di Eswold sulla sponda orientale del fiume Narn, nel tratto a valle delle Cascate di Twilly. L’unica via, percorribile con carri, univa il villaggio alla grande strada che correva, più a sud, tra Ingbrook e la fortezza di Caer Belfrot. Nel piccolo borgo vivevano poche famiglie di boscaioli, cacciatori e contadini.

Ecyl sistemò Bora nella stalla davanti a del buon fieno. Accarezzò, con affetto, il muso della cavalla e quindi si avviò a passi svelti verso l’ingresso di casa.



Bora - la cavalla bianca

Giunta davanti al padre, sollevò con fierezza la selvaggina tra le mani: «Padre, guarda che belle lepri e che grasse pernici.»

Dal suo giaciglio il vecchio Vincent Chawt rispose con un sorriso. L’anziano genitore era ormai abituato a quei trionfali ritorni. Adorava la sua “bambina”, così la considerava ancora il suo cuore di padre. Vincent si rese conto, guardandola, che Ecyl era ormai cresciuta anche nel fisico: nell’animo il passaggio della ragazza all’età adulta era avvenuto in modo estremamente prematuro e traumatico, molti anni prima.

Erano ormai passati una decina d’anni da quando il vecchio fu costretto a letto da una terribile paralisi alle gambe. Ecyl aveva, all’epoca, solo otto anni, ma seppe accettare il terribile colpo dimostrando una forza di spirito insospettata. La bambina si occupò, con amore e tenacia, di suo padre.

Vincent all’epoca aveva pianto per la sua malattia, per quello che significava per la piccola Ecyl. Il destino sembrava accanirsi contro di lei: quando aveva solo quattro anni la morte le aveva portato via la madre. Queste esperienze terribili l’avevano segnata, ma anche fortificata.

Ecyl era diventata, in breve, brava nel coltivare i campi, nel cacciare e nel pescare. Crebbe forte e sana.

Entrata nella seconda adolescenza, la giovane aveva spesso fantasticato sul principe azzurro che un giorno l’avrebbe fatta salire sul suo destriero bianco e l’avrebbe resa regina. Forse per questo, aveva comprato Bora. Lavorò duramente e mise, a fatica, da parte i cinquanta auro necessari per l’acquisto.

Bora era un cavallo, anzi una giumenta per la precisione, dal mantello candido e immacolato, di un colore bianco purissimo e dalla pelle rosata: anche la criniera e la coda erano bianche. La cavalla, non molto alta, in ogni caso sopra l’altezza di un pony, aveva un fisico agile ma vigoroso e un’eleganza innata. Bora era abbastanza veloce, ma questa non era la sua maggiore virtù: la ragazza l’aveva scelta soprattutto per il carattere docile e intelligente che caratterizzava la sua razza. Ecyl l’aveva ben presto eletta al rango di sua migliore amica. Parlava con lei, spesso la chiamava affettuosamente “occhi blu” per il caratteristico colore delle iridi. Arrivava a confidarle i suoi sogni.



Ecyl

La bellezza di Ecyl fiorì in quel corpo tonificato dalle fatiche e dalle responsabilità: aveva ereditato dalla madre grandi e profondi occhi azzurri, dal padre una lunga chioma nera. Questo insolito accostamento le donava un fascino inquietante. Aveva denti bianchi e perfetti e un sorriso seducente. Non aveva, però, prede con cui usare quella potente arma: la sua bellezza non poteva essere apprezzata, a Pewick non c’erano ragazzi della sua età.

Temperata dalle esperienze della vita, Ecyl aveva acquisito un ottimo controllo di sé, sapeva mantenere un buon sangue freddo. Era una ragazza tranquilla e pratica. Si contrapponeva a questo la sua estrema e vivida fantasia, un carattere da sognatrice. Nei rapporti con gli altri era molto sensibile, sincera e leale. Era una persona fedele ai suoi sentimenti, ma, nello stesso tempo, esigente e gelosa. Un carattere estroverso che spesso le aveva procurato delle piccole delusioni. Aveva una natura profonda che mascherava dietro la sua apparente semplicità e spensieratezza: risultato forse naturale anche della sua giovane età.

La ragazza amava leggere, era riuscita ad imparare, fin da bambina, con l’aiuto di Agas. Il vecchio amico, quasi un secondo padre per lei, le aveva anche regalato, qualche anno prima, un romanzo d’amore e d’avventura, che lei aveva divorato con avidità e aveva riletto più volte.

Vincent notò che la piccola Ecyl era diventata proprio una bella fanciulla: «Vieni qua vicino, figlia», le disse picchiettando con la mano sul bordo del letto.

Ecyl posò la selvaggina sul tavolo, posto al centro della stanza, accanto al vaso traboccante di fiori freschi e profumati. Si avviò verso il padre e si sedette sul bordo del letto accanto a lui. Il vecchio le prese le mani e la guardò con amore e gratitudine. A volte non era necessario parlarsi, i due riuscivano a capirsi solo guardandosi e accarezzandosi con affetto. Padre e figlia guardarono la loro casa, respirarono il calore che vi si avvertiva pur con il caminetto spento.

Il mobilio nella capanna era molto spartano e povero, ma Ecyl teneva la casa ben curata. La ragazza aveva utilizzato come ripostigli i due armadi presenti, mentre i suoi vestiti li aveva disposti, con cura, in alcuni bauli. Non vi erano altri mobili, se si escludevano le poche seggiole intorno al tavolo.

L’arredamento era completato da due letti: quello di Vincent e quello di Ecyl ai lati opposti della casa e separati dalla zona centrale da due drappi cuciti dalle laboriose e capaci mani della stessa Ecyl. In effetti, a loro non serviva molto altro.

Anche gli altri grundiani, era questo il nome degli abitanti della Terra di Grund, avevano case semplici e all’interno vi era l’essenziale. Questo perché essi passavano la maggior parte del tempo all’aria aperta, la casa era usata solo la notte per dormire e ritemprare il corpo e la mente dalle fatiche della giornata. La notte oscura, rappresentata simbolicamente dalle braccia malevoli di Kuolem, la dea della morte, era fonte di paure e superstizioni per i grundiani. Essa era considerata popolata da esseri malvagi e animali selvaggi; la casa era un porto sicuro dove rifugiarsi durante la notte.

Le oscure sciagure ottengono sempre l’ausilio della sorella oscurità.”, recitava un detto filliceno, la razza a cui apparteneva la quasi totalità dei grundiani.

A volte i filliceni consumavano a casa il pasto serale, quasi mai quello del mezzodì: a quell’ora erano sempre fuori, e a volte lontani, per le loro attività.

Ciò non era vero, però, per Vincent. Il vecchio non aveva possibilità di uscire fuori di casa, se non per brevi momenti e grazie all’aiuto paziente e amorevole di Ecyl.

Buona parte della breve vita trascorsa in casa dai grundiani, se si escludeva il momento del sonno, aveva per centro il focolare. Il camino, costruito su una parete o in alcuni casi al centro della stanza, era quindi un elemento essenziale nelle case fillicene: aveva vari scopi tra cui la cottura delle vivande, riscaldare nelle stagioni fredde e scacciare le aborrite tenebre. Anche l’umile capanna di Vincent aveva il suo bel caminetto, sul lato della stanza opposto all’ingresso. Alla destra di esso v’era una legnaia, tenuta ben fornita dalla giovane ragazza.

Le capanne dei villaggi più poveri, come quella di Vincent ed Ecyl, non avevano un pavimento, ma poggiavano sulla nuda terra. I contadini vi camminavano a piedi scalzi per vivere in stretto contatto con la terra che tanto amavano e veneravano. In casa o nei campi che coltivavano, quell’unione diretta dava loro un’energia e una sensazione unica.

Dentro le case, i grundiani, in particolare la notte, alloggiavano spesso anche gli animali. In quella maniera erano più al sicuro e protetti contro ladri e predatori.

Ecyl aveva preferito tenere gli animali lontani dal vecchio padre malato e aveva costruito, per essi, una stalla fuori della casa, oltre il pozzo. In essa la ragazza teneva anche gli attrezzi da lavoro.

Ecyl diede un bacio sulla fronte di Vincent e si alzò dalla sponda del letto. Parlò al vecchio con il tono di una madre verso il figlio piccolo: «Ora mi aspetti buono buono, qui. Io vado al pozzo a sistemare la selvaggina, poi da Ellys per comprare dell’insalata.»

Ecyl s’incamminò, montando l’inseparabile Bora, lungo il viottolo che costeggiava il fiume Narn in direzione della casa del vecchio Ellys. Fu così che fece un incontro inaspettato che colpì il suo animo sensibile: Yelda, accovacciata vicino alla riva del Narn, era in lacrime. La vecchia piangeva spesso per la morte del marito. Il lungo tempo, quantificabile in mesi, trascorso dalla dipartita del congiunto non aveva ancora lenito il suo dolore. Yelda non riusciva a rassegnarsi: si sentiva sola e sconsolata.

Questo dolore, non sanato, ingigantiva anche i più piccoli problemi che si trovava ad affrontare quotidianamente. Il fatto, da poco successo, era gonfiato nella sua testa fino ad assumere proporzioni di tragedia. La vecchia teneva la testa tra le mani singhiozzando sommessamente. Le dita affioravano tra i grigi capelli, lo sguardo fisso sul corso d’acqua: le lacrime ingrossavano e deformavano le onde del fiume, mentre lasciavano gli occhi umidi scavalcando le rugose guance.

Ecyl bloccò subito Bora, scese da cavallo e si avvicinò toccandole la spalla: «Cosa succede, Yelda?»

«Niente, niente», rispose lei con tono isterico.

«Allora perché piangi?» Ecyl, continuando a tenere la mano sulla spalla della vecchia, si accovacciò accanto a lei.

La ragazza notò un livido sull’avambraccio della donna. «Cos’è? Ti sei fatta male?», chiese preoccupata.

«Sono caduta», rispose lei in maniera brusca ed evasiva.

«Se è vero che sei caduta, pare impossibile che tu abbia solo un grosso livido sul braccio e nessun’escoriazione», osservò dubbiosa Ecyl.

«Sono stata fortunata», spiegò Yelda, tagliando corto.

«Ho capito, non vuoi dirmi cos’è successo al tuo braccio. Vuoi dirmi, però, perché piangi? Sai che ti voglio bene Yelda, puoi fidarti di me», sussurrò con dolcezza la ragazza guardando la vecchia e sfiorandole l’umida guancia col dorso della mano.

«Akemi, la mia cockerina, è scappata via. E’ colpa di Ellys, quel vecchio pazzo», spiegò infine la vecchia continuando a singhiozzare.

«Ellys è strano, ma non è pazzo», sostenne Ecyl, «piuttosto dimmi cosa è successo? Ti ha ferito lui al braccio?»

«No, no! Almeno non intenzionalmente», assicurò Yelda, «abbiamo litigato per via della abitudine di Akemi di seppellire i suoi ossi proprio nell’orto di Ellys. Il vecchio si è adirato perché la mia cagnolina gli avrebbe rovinato alcune piante d’insalata.»

«Beh, posso capirlo», ammise la ragazza, «ma poi cosa è successo?»

«Ha preso una vanga e ha tentato di colpire la mia Akemi. Io ho cercato di fermarlo interponendomi e così che sono stata colpita al braccio. Lui si è subito dispiaciuto, ma poi questo incidente l’ha fatto infuriare ancor più e ha iniziato ad inseguire Akemi agitando la vanga. Ha tentato più volte di colpirla, ma per fortuna lei è scappata via, inseguita dal contadino. Da stamattina non ho più visto la mia cagnolina. Ho paura che Ellys l’abbia raggiunta è infine uccisa.»

La vecchia si mise il viso tra le mani e scoppiò a piangere più forte di prima: «Ora sono veramente sola», disse in tono di sconforto.

«Non sei sola, ci sono qui io. Vieni, ti riaccompagno a casa». Ecyl aiutò la vecchia ad alzarsi e la prese sottobraccio dirigendosi verso la casa di lei; Bora si fermò a brucare l’erba sulla riva del fiume. La ragazza riprese a parlare, cercando di calmare la vecchia: «Non credo che Ellys sia capace di uccidere nessuno, nemmeno un cane. Forse Akemi è solo spaventata e nascosta da qualche parte. Ti prometto che andrò a cercarla insieme a Bora, la mia cavalla ha un fiuto particolare per queste cose».

La donna sembrò rincuorata dalle parole di Ecyl, quando entrò in casa aveva smesso di piangere. Rivolse un sorriso alla ragazza e la ringraziò salutandola con un cenno della mano, poi disse: «Promettimi che la ritroverai».

«Lo prometto».

Due ore dopo Ecyl, grazie all’istinto di Bora, ritrovò la cagnetta sulla strada per Caer Belfrot, abbastanza lontana da Pewick, e la riportò a Yelda. La vecchia sembrò rinascere nel vederla, l’accolse tra le braccia e iniziò ad accarezzare il suo lungo pelo color champagne.

«Visto che non sei sola?» le disse Ecyl.

«Sì! Grazie Ecyl, sei proprio una cara ragazza».

Ecyl usci dalla casa di Yelda e vide che la cavalla si era allontanata e ora si stava abbeverando, più giù, sul fiume Narn. D’improvviso Bora smise di bere ed emise un alto nitrito per richiamare l’attenzione. Ecyl, che la capiva al volo, corse subito da lei. Bora continuò a nitrire alzando, ripetutamente, il muso verso la corrente. Ecyl guardò nella direzione indicata dalla cavalla. Strizzò gli occhi e cercò di mettere a fuoco quella cosa che galleggiava sull’acqua, trascinata dal fluire del fiume. Sembrava un cuscino puntaspilli che veleggiava verso il lago. Naturalmente non lo era, si trattava invece di un uomo trafitto da due frecce. La ragazza non si pose altre domande e si tuffò in acqua. Con energiche bracciate raggiunse, ben presto, il corpo inerte. Con estremo sforzo riuscì a portarlo a riva. L’uomo respirava ancora, se pur a fatica, emettendo un rapido e frenetico rantolo. Il contatto della sua mano ricevette una vampata di calore dalla fronte dell’uomo: egli era in preda a forte febbre e scottava terribilmente. Ecyl capì di non potergli estrarre le frecce lì, sul greto del fiume. Doveva portarlo a casa, dove aveva più mezzi per curarlo. Fece un cenno a Bora. La cavalla si abbassò fin quasi a terra. Ecyl caricò, non senza fatica, sulla groppa di Bora il corpo dell’uomo. Lo sistemò con cura e poi prese le redini della cavalla avviandosi, in fretta, verso casa.

Vincent la vide entrare dentro la capanna con Bora. La sua espressione di meraviglia si trasformò in sdegno, quando vide l’uomo, privo di sensi, steso sulla sella: «Chi è? Che cosa gli è successo? Perché lo hai portato qui?»

Ecyl lo guardò preoccupata: «Non so chi sia, né cosa gli sia successo, padre. So solo che ha bisogno d’aiuto.»

Vincent la rimproverò per aver portato uno sconosciuto in casa sua, un uomo di cui non sapeva niente. Ecyl, però, non lo ascoltò. Era determinata a salvare lo sventurato.

Adagiò l’uomo sul suo letto, preparò delle bende e delle polveri d’erba secca: un dono di Agas per curare le ferite. Si apprestò, senza esitazione, ad estrarre le due frecce.

Sistemate le ferite, coprì l’uomo con due coperte; poi ne prese un altro paio da un baule e con esse andò a prepararsi il suo giaciglio nella stalla, sulla paglia accanto a Bora.

Molto tempo era passato, quando Nim aprì gli occhi. Egli vide un volto radioso e due occhi azzurri che lo scrutavano, illuminati da un dolce sorriso. I suoi ricordi tornarono al tuffo nel vuoto, alla fuga, al campo di battaglia, ma non riuscirono ad andare oltre. Un’altra donna sconosciuta, pensò poi. Stavolta, però, non era bionda.

«Chi sei? Mi conosci? Dove sono?» Nim pose le domande in un filo di voce, mentre si agitò sul lettino.

La ragazza rise, si sedette sulla sponda del letto accanto a lui, e quindi rispose: «Una domanda per volta. Io mi chiamo Ecyl e qui sei al sicuro. Ci troviamo a Pewick, in casa mia. Finalmente ti sei svegliato.»

«Pewick?!», ripeté Nim in tono dubbioso e in un sussurro, spingendo la testa indietro sul cuscino. Nemmeno quel nome gli diceva nulla.

«Pewick è un piccolo villaggio, vicino alla nostra capitale Filla», spiegò la ragazza, mentre gli rimboccava le coperte.

Filla! Quest’ultimo nome sembrò aprire uno spiraglio nella memoria di Nim. Capì subito perché: aveva sentito quei soldati chiamarlo filliceno, pensò quindi di essere un abitante di quella città.

«In quanto all’altra domanda, la risposta è no! Non ti conosco, non ti ho mai visto prima che ti salvassi dalle acque del fiume, un paio di giorni fa», interruppe i suoi pensieri la ragazza, «avevi due frecce piantate nella spalla. La scapola, per fortuna, ha impedito la perforazione del polmone. In maniera diversa, nessuno avrebbe potuto evitarti di raggiungere Kuolem, la nostra Signora della Morte», proseguì Ecyl alzando il capo e chiudendo per un istante gli occhi. Poi guardò il giovane e ponendogli le mani sulle spalle chiese: «Ma dimmi, chi ti ha colpito?»

Nim divenne taciturno. Non sapeva come rispondere alla, pur semplice, domanda. Girò, nervosamente, la testa da un lato e socchiuse gli occhi. Fu la stessa Ecyl, però, ad intervenire in suo aiuto: «Scusami! Ti sto assillando con le mie domande, mentre tu sarai stanco e vorrai riposare.»

Le ferite di Nim guarirono abbastanza celermente, al contrario della sua mente che non voleva saperne di ricordare. Una decina di giorni dopo il salvataggio, egli fu in grado di alzarsi dal letto. La ragazza gli procurò degli abiti di suo padre, che aveva continuato a protestare e a rimproverarla ma sempre più flebilmente.

Ecyl ritenne Nim una persona molto riservata e anche piuttosto strana. Era riuscita a strappargli a fatica il solo nome, ma non era stata in grado di sapere nient’altro di lui.

Aveva chiesto ancora a Nim informazioni sulla sua disavventura, su chi l’avesse ferito. Stavolta lui gli aveva risposto scuotendo la testa: «Sono stati dei soldati, ma non so perché.»

Ecyl mostrò a Nim le due frecce estratte dalla sua schiena: «Queste non sono frecce di soldati filliceni», affermò sicura la ragazza, «non avevo mai visto frecce con tale impennaggio, prima d’ora. Le frecce grundiane sono più lunghe e hanno impennaggio formato da tre file di piume blu; queste sono frecce, con asta pesante e di lunghezza media, e come vedi l’impennaggio ha sei file di piume verdi».

«Sono un soldato filliceno e immagino che miei commilitoni non possano aver tentato di uccidermi. Forse i miei aggressori erano soldati nemici», considerò Nim girando una delle due frecce tra le mani. Poi proseguì, socchiudendo gli occhi per qualche istante: «Ricordo che sono stato colpito sul ciglio di una gola solcata da un fiume. In quel punto l’acqua precipitava in due grandi cascate.»

Ecyl lo guardò con estrema meraviglia sgranando i suoi bellissimi occhi azzurri: «Sei sopravvissuto al salto delle Cascate di Twilly?»

Nim afferrò le braccia della ragazza, scuotendola: «Conosci quel posto? Sapresti condurmi lì?»

Ecyl annuì: «Le cascate si trovano a circa quindici ore di cammino da qui.»

Nim strinse i bicipiti di Ecyl con le sue mani: «Mi accompagneresti domani? Voglio recuperare il mio zaino, la mia spada e la mia armatura. Ammesso che si trovino ancora lì.»

Ecyl non si divincolò dalla stretta, anche se Nim iniziava quasi a farle male. Invece lo osservò attentamente, restando in silenzio. Notava un grosso tormento in lui, ma non riusciva a capire cosa veramente lo preoccupasse. Esitò, ma infine decise di aiutarlo: «Va bene, ti accompagnerò, ma ora lascia le mie braccia.»



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