Nim aveva lasciato malvolentieri la capanna di Pewick ed era partito con la morte nel cuore.
Aveva un grosso debito con Ecyl: lei gli aveva salvato la vita. Non era, però, solo questo: sentiva di volerle bene. Per niente al mondo avrebbe voluto farla soffrire. Si era accorto, con quello che era successo quella sera, d’essere stato causa di dolore per la ragazza. Non aveva nemmeno potuto risponderle, dirle, come avrebbe desiderato, che la donna del ritratto non era sua moglie: poteva, però, veramente dirlo? Avrebbe voluto dirle che si era affezionato a lei e che il suo cuore correva spesso da lei: ma, anche questo, poteva permettersi di dirlo?
Capì che la sua vita non poteva più andare avanti così, non poteva proseguire come in quei giorni, pur belli. Stava abbandonando sé stesso e seppellendo il suo passato. Era necessario e urgente, invece, scoprirlo: bello o brutto che fosse.
Non sapeva se fosse già sposato con Ezianne o con altra donna; avrebbe potuto anche avere dei figli che aspettavano il suo ritorno. Come poteva ancora rimanere a Pewick senza cadere nella tentazione di fermarvisi per sempre? Come poteva restare e non lasciarsi andare a quel sentimento che sentiva nascere per la ragazza? No, non poteva restare. Doveva andare via subito, senza altre esitazioni, senza creare ulteriori problemi: in quel momento non era in grado di agire altrimenti.
Scrisse un biglietto per Ecyl, aveva gli occhi umidi, quando lo fece.
Prese il suo zaino, lasciò, posandoli ordinatamente sul letto, gli abiti che Ecyl gli aveva dato e indossò la sua armatura.
Si avvicinò al letto di Vincent e prese la mano del vecchio tra le sue: lo salutò e lo ringraziò di cuore.
Il vecchio, per la prima volta, gli sorrise: «Che gli dei siano con te, ragazzo», gli augurò sincero.
Nim uscì da casa Chawt senza voltarsi indietro. Avvertì la fresca brezza notturna portare dal fiume il gracidare di rane. La pioggia era quasi cessata: solo qualche schizzo solcò la sua fronte. Aggiustò lo zaino sulle spalle e imboccò la viuzza, in discesa e scavata dall’acqua, in direzione di Caer Belfrot.
Si fermò incerto, si girò un istante verso la stalla: Ecyl era lì. Pensò a lei con gioia e con tormento: la felicità per averla conosciuta e il dolore per doverla lasciare. Forse doveva salutarla, ma non n’ebbe il coraggio: preferì andarsene in silenzio, così com’era arrivato.
Nim percorse la strada verso la fortezza con la mente in subbuglio: pensava ad Ecyl, ma rifletteva anche sugli indizi in suo possesso. Ben miseri erano quest’ultimi. Come sarebbe potuto riuscire nell’impresa di trovare sé stesso? Agli oggetti che aveva con sé nello zaino, tra cui il ritratto di Ezianne, era riuscito ad aggiungere un solo nuovo elemento: aveva capito di essere un soldato filliceno.
Aveva appreso da Ecyl che tale appellativo non era usato per definire gli abitanti di Filla, come aveva in un primo momento pensato e sperato, bensì era il nome di una razza che viveva nella Terra di Grund. Quasi tutti i grundiani, salvo rare eccezioni, erano di razza fillicena, la stessa Ecyl lo era.
Questa rivelazione l’aveva sconvolto e sprofondato nel baratro. La sua idea di cercare le proprie origini in Filla si era sciolta, nella mente, come neve al sole: aveva un mondo ben più vasto da scandagliare.
Ma ormai Filla era, e rimase, la prima tappa del suo cammino. Cosa avrebbe potuto cercare, e sperare di trovare, nella grande capitale? Sempre Ecyl gli aveva detto che la città poteva contare sui cinquantamila abitanti. Solo un nome e un ritratto portava con sé, insieme al suo aspetto. Una remota speranza albergava nel suo cuore: forse a Filla qualcuno avrebbe riconosciuto lui o Ezianne.
Superò la fortezza di Caer Belfrot, seguendo le indicazioni che Ecyl gli aveva dato, quando, giorni prima, le aveva chiesto la strada per la capitale. La ragazza era stata molto precisa, Nim ne riceveva i primi riscontri. Lei gli aveva detto che occorreva un giorno e una notte di viaggio per arrivarci a piedi. Seguì quindi con decisione la strada verso il Ponte di Granito, unico punto d’attraversamento del fiume Narn prima che questo s’immettesse nel lago Megara.
La notte era buia e silenziosa, nemmeno i grilli cantavano. Le nuvole nascondevano la luna dietro un velo di pudore, lasciandola intravedere per brevi attimi: l’astro argenteo aveva da poco oltrepassato il primo quarto.
Nim si fermò, quando vide, in cielo, i primi chiarori dell’alba. Riposò solo un paio d’ore: voleva giungere a Filla entro la notte seguente.
Era già buio, quando avvistò, da lontano, le alte e poderose mura merlate che cingevano la più grande città della Terra di Grund: la capitale Filla.
Gli agglomerati urbani dei grundiani erano, di norma, piccoli: Filla era un’eccezione. Escludendo Pinion, la seconda città grundiana in grandezza, gli altri importanti centri come Limongero, Usi Satam, Kol, Tamoor e Andra non arrivavano ad un quinto della dimensione di Filla. Riland, il più grande tra i villaggi, poteva contare su cinquecento abitanti. Ingbrook, prima della distruzione, n’aveva duecento.
Nim osservò le due torri che sostenevano l’ampio arco in pietra chiuso dal massiccio portone di legno alto una decina di metri. L’intelaiatura del portone era in ferro pesante.
Le torri, alte circa quaranta metri, avevano pianta quadrata. Chi le aveva progettate aveva badato più alla sostanza che all’apparenza. Non avevano niente di bello, ma davano un’idea di solidità e forza. La stessa idea scaturiva guardando le tozze mura alte una quindicina di metri.
Il grosso portone era già chiuso per la notte. Nim si avvicinò alla guardia e chiese il permesso di poter entrare in Filla, oltre a informazioni su una buona locanda dove cenare e passare la notte.
La guardia non fece obiezioni, fors’anche per l’armatura da soldato filliceno indossata da Nim. Il commilitone aprì una piccola anta, ricavata nel grosso portone, e lo fece entrare: «Vai da mio cugino Grewill, alla locanda del Corno Bianco. Si trova nella Piazza Centrale di Filla, sono sicuro che ti troverai bene», gli disse con cortesia fornendogli anche le indicazioni per arrivarci: «E’ un posto molto facile da raggiungere, anche se non troppo vicino. Vai a destra verso il Tempio degli dei, quindi attraversa a sinistra il ponte sul canale e segui la dritta strada fino alla Piazza Centrale.»
Nim avvertì che in città si respirava un aria ben diversa da quella di Pewick: non sapeva ancora se migliore o peggiore. Osservò il maestoso tempio degli dei immerso in un grande e verde giardino e rischiarato da luminose lanterne sistemate con cura tutt’intorno.
Anche le case di Filla erano diverse da quelle di Pewick. Nella capitale la maggior parte di esse aveva una pianta geometrica regolare, perlopiù rettangolare o anche quadrata.
Le case delle classi più abbienti avevano un cortile o un giardino centrale all’aria aperta, con annesso, di solito, un pozzo per l’acqua. Nei casi, meno fortunati, dove questo mancava era possibile servirsi di un buon numero di pozzi comuni o di fontane sparse per le vie della città.
I materiali da costruzione erano i più disparati, ma quelli più usati erano i blocchi in pietra ed i mattoni. L’interno ed anche l’esterno, in alcuni casi, era intonacato con argilla grigia. In molti casi l’argilla era stata impastata con polvere d’ocra gialla o altre misture colorate che rendevano più vivace l’aspetto delle pareti. Le case più lussuose facevano uso anche di rivestimenti di legno e, quale elementi decorativi, arazzi e tendaggi di stoffa pregiata.
Nim pensò: “Chissà se tra queste case c’è anche la mia?” Mentre osservava e meditava seguì, quasi inconsciamente, le indicazioni della guardia e arrivò alla Piazza Centrale. Un altro maestoso tempio si affacciava in essa. Prima del Tempio di Maelma, sulla destra, Nim riconobbe la locanda. Appeso sotto l’insegna v’era un autentico, enorme, corno bianco. La protuberanza ossea doveva essere appartenuta ad un bell’esemplare d’animale, forse una preda di caccia del proprietario.
Varcò la soglia immergendosi nel chiacchiericcio allegro, caldo e fumoso, della sala principale della locanda. L’ambiente della taverna gli parve, per un attimo, familiare. Il fatto lo eccitò: forse la memoria stava facendo qualche progresso. Ben presto, però, nella sua mente si fece largo un’altra idea: forse il locale assomigliava alle tante locande che aveva visto ed era familiare, solo in maniera inconscia, alla sua memoria.
Passò accanto ai numerosi tavoli, in buon legno di noce. La gente presente era vivace e briosa. Superò i brusii e le allegre risate e si diresse verso l’oste.
Nim si avvicinò al bancone coperto da un lucido marmo, che un omone, con le maniche tirate su, si affannava a strofinare con un soffice cencio bianco.
«Vorrei una camera per la notte», proferì Nim facendo tintinnare una moneta d’oro sul ripiano di marmo.
L’oste sorrise e, senza smettere di strofinare il bancone, parlò: «Sono Grewill Parre, per servirti straniero. Per questa moneta», disse afferrandola e sollevandola, «posso darti anche una lauta cena, se lo desideri.»
Nim annuì, poi pose sul bancone il ritratto di Ezianne «Te ne do un’altra, se sai dirmi dove posso trovare questa donna.»
Grewill lasciò il panno e prese il dipinto con una mano. Lo sollevò davanti al suo naso e osservò attentamente il volto della donna, mentre si toccava il mento con l’altra mano.
«Gran bella donna!», osservò con un sibilo, «Ma, mi spiace davvero, non l’ho mai vista prima d’ora», disse infine l’oste scuotendo il capo.
Da un tavolo vicino si alzò una donna e si avvicinò al bancone. La bella ragazza, dai lunghi capelli bruni e ricci, posò una mano sulla guancia di Nim e avvicinandosi al suo orecchio, con un sorrisetto malizioso dipinto sulla rossa bocca, sussurrò: «Tesoro! Cos’ha più di me quella donna? Se lo dai a me un auro, te la faccio dimenticare subito.»
Nim scrollò le spalle e si voltò verso l’oste: «Accetto la cena, Grewill. E questa signora...»
«Mi chiamo Mary», disse la ragazza.
«...e Mary cena con me. Io sono Nim», le disse porgendole il braccio e avviandosi verso un tavolo libero.
Consumata la cena, i due salirono, insieme, la vecchia scala di legno che portava al piano superiore. Nim usò la chiave fornita da Grewill per aprire la sua stanza. Entrati in camera, Nim sfilò la chiave da fuori e la usò per chiudersi dentro con Mary. Nim posò lo zaino a terra, si sedette sul bordo del letto e si rivolse verso la donna scrollando la testa: «Mary, in realtà, non voglio dimenticare quella donna.»
Gli occhi scuri della ragazza scintillarono: «Ho capito tesoro, ne sei innamorato; ma non ti preoccupare tra noi ci sarà solo piacere, sono molto brava in questo», sussurrò Mary avvicinando la bocca al viso di Nim.
Nim scrollò ancora la testa, ma con più energia: «No, non hai capito proprio per niente. Sto cercando quella donna perché è l’unico elemento che mi lega al passato. Ho perso la memoria per un trauma e non so nemmeno chi sono, non ho nessun ricordo del passato.»
«Mi spiace, è terribile», il viso della donna si rattristò, e sembrò sincera, «ma com’è successo?», chiese con curiosità.
«Ho ricevuto un colpo alla testa durante la battaglia di Ingbrook», spiegò Nim.
Mary si ritrasse indietro e lo guardò sbalordita: «Sei sopravvissuto alla battaglia di Ingbrook? Non è possibile», affermò con tono sicuro.
«Perché dici così?»
«Perché qui, a Filla, lo sanno tutti che non ci sono stati superstiti. Vi sono morti tremila soldati filliceni tra cui il nostro Re Inghard e i due eredi al trono: i principi Philip di Jamoor e Nigham Rathcliff», spiegò Mary decisa. Poi attenuò il tono della voce, come per riferire un pettegolezzo, e continuò: «Circolano poi voci di un filliceno scappato dalla piana della morte. Egli sembra sia stato inseguito dai soldati tamrai fino alle Cascate di Twilly, dove è stato ucciso», Mary accompagnò le parole con ampi gesti delle mani.
Nim rimase senza parole: era diventato parte della storia.
«Come vedi, quel filliceno non è stato ucciso», disse infine all’incredula donna.
«Vorresti dire che sei tu quel filliceno e che ti sei salvato dalle frecce tamrai?», chiese Mary ancora più stupita.
Nim non le rispose. Decise che era giunta l’ora di interrompere quel dialogo. Voleva verificare se ricordava come si facesse l’amore con una femmina.
Attirò la donna a sé mormorando: «Ora basta parlare». Iniziò a baciarla con le labbra divorate dalla passione. L’esperta donna rispose al suo bacio e lo frugò, abilmente con le mani, provocando, in lui, un desiderio irrefrenabile. Lei si distese sul letto e Nim si perse tra le sue braccia e nel suo ventre.
Quando Mary uscì dalla stanza, Nim ripensò al dialogo avuto con lei. C’erano due cose che lo inquietavano.
Per prima cosa aveva confessato, con estrema leggerezza e in pochi minuti, ad una prostituta appena conosciuta, la sua fobia, il segreto profondo che attanagliava la sua anima: essere senza memoria, essere un signor nessuno. Perché invece non era riuscito, in tutti quei giorni piacevoli passati con Ecyl, a farlo con lei? Il suo cervello rimuginò la domanda e la risposta arrivò fulminea: di Mary non gli importava niente, mentre teneva molto ad Ecyl.
L’altra inquietitudine veniva dalle rivelazioni di Mary sul filliceno ucciso alle cascate di Twilly. Sentiva che le parole della donna avevano aggiunto un tassello importante alla sua indagine. I soldati di Tanh Man Ra non volevano nessun superstite. Nella battaglia erano morti il re e i suoi eredi al trono. I tamrai volevano forse assicurarsi che non ci fossero più pretendenti al trono, perché?
Si addormentò, con questa domanda che percorreva, come una palla impazzita, rimbalzando nei cunicoli del labirinto della sua mente.
La risposta al quesito arrivò l’indomani, quando uscì dalla locanda immettendosi nella piazza affollata di gente. Nim capì subito, pur essendo per la prima volta a Filla, almeno per sua memoria, che c’era qualcosa di particolare nell’aria.
In città tutti parlavano dei due eventi del giorno: l’apertura della famosa Porta di Cristallo e l’incoronazione del Duca Thamas di Xeropol, un nobile filliceno ritenuto, ben da tempo, in combutta col nemico. Il generale nemico Kaf Kep Nay, vincitore della battaglia di Ingbrook, aveva imposto l’incoronazione di Thamas come una delle condizioni per l’armistizio.
Nim elaborò le notizie apprese in città. Forse alcune erano solo pettegolezzi, ma la maggior parte di esse aveva, di sicuro, un fondamento di verità. Forse il Duca Thamas non era un traditore, ma sicuramente era vero, perché confermato da tutti, che fosse stato imposto dal generale nemico.
Il generale tamrai l’aveva dunque fatto braccare perché temeva che potesse essersi salvato uno dei pretendenti al trono, che avrebbe potuto impedire l’ascesa di Thamas. Nim era ormai convinto di aver raggiunto questa verità. Poi pensò che il generale avrebbe potuto risparmiarsi la fatica perché lui non era certo uno di quei nobili. Ma questa riflessione lo bloccò: “era veramente così?” Si chiese subito dopo. Nim si rese conto che non aveva nessun elemento che potesse confermare o negare la sua congettura.
Era sicuro di non poter essere Re Inghard perché il defunto sovrano aveva oltre sessant’anni, così aveva sentito dire dalla gente. Ma non poteva negare, con assoluta certezza, di essere uno dei due principi: Philip di Jamoor o Nigham Rathcliff. Ritenne più probabile essere un semplice soldato, ma non poteva negare e trascurare i due nuovi elementi spuntati dal suo probabile passato.