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Firenze, 30 Dicembre 2024 (Lunedì)
LE SPADE DI SINRASIL

Capitolo 6
La Porta di Cristallo

Nel Palazzo Reale di Filla, quel giorno, c’era una particolare animazione: la Porta di Cristallo stava per essere riaperta dopo circa cinquant’anni.

La Porta di Cristallo esisteva da sempre. Fu costruita per chiudere la Sala degli Antenati: un ampio salone a pianta semicircolare.

Sulla spessa parete della sala erano scavate, simmetricamente lungo la semicirconferenza, una quarantina di nicchie. Le cavità, a pianta semicircolare, erano sormontate da una mezza calotta sferica. Una grossa piastra in granito integrava il pavimento della nicchia; essa sporgeva dal muro sostenuta da due mensole in pietra, artisticamente scolpite con volute spiraliformi. Ai lati della granitica base si elevavano due colonne tonde in pietra, ricche di scanalature verticali. I capitelli, adornati da foglie d’acanto scolpite con maestria, sostenevano un arco in pietra, con chiave centrale e che contornava la calotta. Più di trenta nicchie, partendo da sinistra e in ordine cronologico, contenevano le statue dei sovrani che si erano succeduti nel regno della Terra di Grund.

Abili scultori avevano immortalato i re nella pietra. Le statuarie sculture erano un onore che i grundiani riservavano solo agli dei e agli uomini importanti, come i re.

La parete diametrale, salvo due pilastri laterali, era costituita interamente dalla Porta di Cristallo: il suo nome derivava dal fatto che fosse costituita da due estesi pannelli di cristallo. Abili artisti li avevano colorati e disegnati. Il lato del cristallo di sinistra, adiacente al pilastro, raffigurava un tronco d’albero. I rami correvano innalzandosi verso destra fino a congiungersi con le ramificazioni del simmetrico pannello opposto. L’insieme formava una cornice a forma d’arco. La parte centrale, completamente trasparente, permetteva di ammirare le statue regali anche con la porta chiusa.

Gli spessi cristalli erano rinforzati e sostenuti da un’intelaiatura in pregiato ebano di Jamoor. Le superfici di legno erano intarsiate con eteree figure d’argento che davano alla porta una sensazione di leggerezza.

Levità che la porta sembrava, però, non possedere: a giudicare dalla fatica sopportata dai quattro soldati che la stavano aprendo tra il cigolare dei cardini. La data entrò nella storia grundiana: era il 6 ottobre del 1020.

Nim osservò, attento e curioso, mescolato tra la piccola folla che era stata ammessa alla cerimonia.

L’ultima volta, l’imponente porta era stata schiusa dagli avi di quei soldati, cinquanta anni prima. Era questo il tempo trascorso dalla salita al trono di Re Inghard Rostead, perito tragicamente nella battaglia di Ingbrook. La sua statua stava per essere sistemata in una nicchia della sala, subito dopo di quella dove, a suo tempo, fu collocata l’effige di suo padre: Re Ulrich il Grande.

Il regno di Ulrich, vincitore d’innumerevoli battaglie contro il nemico di sempre, vale a dire i tamrai, era durato settanta anni: il più lungo della storia grundiana. La Terra di Grund aveva vissuto un’epoca di pace e prosperità grazie anche al famoso Trattato delle tre Potenze, proposto e imposto nell’anno 950 da Ulrich, tra le tre grandi nazioni della Dusdonia: Terra di Grund, Tanh Man Ra e Matum.

Re Inghard era salito al trono nell’anno 970 ed aveva proseguito l’opera del padre rispettando, e facendo rispettare, il trattato. E questo avrebbe fatto anche il suo erede al trono. L’assassinio, però, della Regina Katerina, moglie di Inghard, in attesa di un figlio, portò il sovrano verso il baratro della disperazione. Le indagini portarono alla luce una terribile verità: il delitto era stato commissionato dai tamrai. Il fatto provocò la rottura del precario equilibrio imposto dal trattato. La Terra di Grund ritornò in guerra contro l’impero Tanh Man Ra; il Matum si limitò a guardare da lontano in maniera neutrale. La guerra era finita, il 10 settembre del 1020, con il massacro di Ingbrook in cui erano periti tremila soldati filliceni, tra cui anche Re Inghard. Così era terminata anche la dinastia dei Rostead.

La fine dinastica fu sancita dal pesante tonfo della statua di Inghard, quando furono mollate le corde dei paranchi.



La statua di Inghard

La porta di Cristallo sarebbe rimasta aperta tutta la giornata, permettendo ai filliceni la visita di quel luogo intriso dei sapori, quasi mistici, della loro storia.

Il cerimoniale prevedeva, ora, l’incoronazione del nuovo re. In mancanza d’eredi diretti di Inghard, il trono sarebbe toccato al principe Philip di Jamoor, cugino di primo grado del re o al principe Nigham Rathcliff suo cugino di secondo grado. Ad Ingbrook, però, s’era consumata anche la tragedia della scomparsa dei due principi.

Fu così che, nel trattare l’armistizio, il generale Kaf Kep Nay, vincitore della cruenta battaglia, aveva “proposto”, per l’ascesa al trono, il duca Thamas di Xeropol. Era questi un nobile filliceno che aveva, da sempre, intrattenuto traffici col nemico. Alcune voci “maligne” sostenevano che avesse fornito una flotta di navi per aiutare l’esercito tamrai a raggiungere la steppa di Xer. Voci più fondate assicuravano che il duca avesse compiuto cose ben peggiori, come inviare i suoi uomini, nella battaglia di Ingbrook, contro i suoi stessi compatrioti.

Con un perfetto colpo da stratega, il generale Testa di Pietra era riuscito a porre un suo uomo di fiducia sul trono della Terra di Grund, rendendola, di fatto, una provincia appartenente al Tanh Man Ra. Ma la partita a scacchi, del perfido generale, era iniziata molti anni prima, quando aveva commissionato la morte della Regina Katerina.

Nel Tempio degli dei, il più grandioso dell’intera Terra di Grund, era tutto pronto per la cerimonia d’incoronazione. Tarey Walda era in piedi, davanti all’altare. Su di esso erano poggiati, sopra un cuscino rosso, la sacra corona e lo scettro grundiano. Il gran sacerdote di Maelma, attendeva, con evidente impazienza, l’arrivo del corteo regale.

Anche Chansa, ambasciatore inviato dall’impero Matum, sembrava impaziente: il diplomatico, di razza matriga, si girava con frequenza indietro gettando il suo sguardo all’ingresso del tempio.

Del tutto calmo e freddo era invece il generale, vincitore di Ingbrook, rappresentante dell’impero Tanh Man Ra, e braccio destro dell’imperatore Cham Heb Nay.

L’impero Tanh Man Ra, che significava “Terra degli uomini veri”, si estendeva nella parte orientale della Dusdonia. Era la nazione più grande del mondo conosciuto. I suoi abitanti si chiamavano tamrai, divisi in tre razze: Nay tan, Tua tan e Dau tan. La grande nazione era attraversata, quasi interamente, dal fiume Giz Neh Refu, il più lungo del mondo. Molti altri primati appartenevano all’impero e ciò era per i tamrai motivo d’orgoglio: vi si trovava la cima del mondo con l’Ain Ju che svettava oltre 9200 metri. Nella parte settentrionale sgorgava dalle viscere della terra, il più maestoso e spaventoso vulcano mai conosciuto: il Runo Ngu Yanar. La capitale Nay Ra era da tutti considerata la città più grande e popolosa di tutta la Dusdonia, anche il deserto più esteso, l’Ok Sunok, si trovava nell’impero. Le manie imperiali di grandezza avevano portato alla costruzione di un’imponente diga, chiamata Dep Heb, per chiudere il Niz Noi o Mare Interno trasformandolo, con processi di desalinizzazione da parte degli alchimisti tamrai, nel Dan Heb o Grande Lago, cosicché l’impero orientale avesse anche il lago più grande del mondo conosciuto.

Un mormorio si levò tra la folla disposta tra le colonne del tempio. Il futuro re stava arrivando con tutta la sua corte.

Thamas salì, con passo lento e solenne, i cinque scalini del tempio all’ingresso della navata centrale. Un paggio teneva sollevato il regale mantello di seta gialla dorata e dalle orlature ricamate in oro. L’aspirante al trono indossava una camicia casacca arancione di stoffa pregiata con disegni in oro, cinta alla vita da una leggera fascia in seta scura. I suoi azzurri occhi glaciali, sotto due sopracciglia folte e grigie come i corti capelli, guardavano dritti davanti a sé. Una luce li illuminò, quando vide i due oggetti poggiati sopra l’altare.

Diversi feudatari del regno seguivano il suo incedere. Tra essi il potente Duca Edward di Kol, alcuni rappresentanti del principato di Jamoor e delle famiglie dei Rathcliff e dei Briador. Vi erano anche diversi capi delle tribù, barbare e nomadi, che popolavano la Steppa di Xer.

Dopo l’incoronazione, secondo l’etichetta della cerimonia, essi avrebbero dovuto giurare fedeltà al nuovo sovrano. Molti di loro si presentavano da vinti, costretti a giurare una fedeltà che in realtà non provavano. C’era tra loro, però, anche chi era portato a seguire il vento più propizio, pronto a calpestare anche la propria patria.

Mancavano all’appello, oltre Ser Alex Ferry assente giustificato per motivi di salute, solo i rappresentanti di una regione facente geograficamente parte della Terra di Grund: la Penisola degli Elfi situata oltre le Montagne della Luna. Questo, però, sembrò naturale. All’epoca nessuno sapeva chi fossero, e se vi fossero, gli abitanti di quella misteriosa terra. Per molti essa era un corpo estraneo all’interno della Terra di Grund e molti non la consideravano nemmeno appartenente al regno. Nessuno di quelli che si erano avventurati nella penisola elfica, avevano fatto ritorno. Le leggende narrano che ivi, in tempi antichissimi, dopo la Battaglia di Andra, si siano rifugiati gli elfi tenendosi lontani dagli umani per non essere contaminati da loro. Oltre le Montagne della Luna, e all'interno della Foresta di Gabarak, si troverebbe la mitica città elfica di Isiliente governata dalla sua bellissima e leggendaria regina Arendel.

Thamas si fermò a dieci passi dall’altare.

Tarey Walda allargò le braccia in un saluto di rito, poi invitò il duca ad avanzare. Thamas s’inginocchiò davanti all’altare. Il gran sacerdote completò il discorso rituale, poi prese la corona tra le mani e iniziò a parlare in modo solenne:

«Qui, sotto lo sguardo benevolo e pietoso di Maelma, regina e madre di tutti gli dei, di Kuolem, la signora della morte, e Araiak, padre della Terra, ricevi la sacra corona, Thamas di Xeropol. Possano gli dei guidare il tuo regno.»

E così detto, Tarey Walda depose la corona sui capelli brizzolati del duca.

La statua di marmo di Maelma non sembrò né benedire né disapprovare: era posta nell’abside prospiciente la navata centrale, con Kuolem alla sinistra e Araiak alla destra, era alta una decina di metri e trasfigurava tutto il suo potere. Aveva aspetto di una bella donna, non più giovane, che indossava una lunga veste stretta in vita da un serpente. La mano destra, alzata al cielo, teneva sollevato il mondo. La mano sinistra accarezzava la testa di un leone, animale a lei consacrato.

Walda prese poi lo scettro e, con formula simile alla precedente, lo consegnò al nuovo sovrano.

Con quest’atto i filliceni avevano perso la libertà, erano diventati schiavi dei tamrai. Eppure, c’era stato un momento, nella storia, in cui essi avrebbero potuto ribaltare tale situazione.

I filliceni erano una razza antichissima insediatasi, in origine, sulle coste occidentali della Terra di Grund. La civiltà di questa razza aveva riscontri che si perdevano agli inizi dei tempi: furono trovate scritte fillicene incavate su pietre d’antichissimi templi, vecchi più di quattromila anni. La più antica testimonianza è senz’altro la famosa Stele di Reutarik conservata nel museo di Pinion.

I filliceni, in pochi decenni, colonizzarono l’intera terra di Grund. Alcuni discendenti dell’originario popolo grundiano, perlopiù formato da tribù nomadi, sopravvivono ancora, come piccole minoranze razziali, nelle lande desolate della Steppa di Xer.

L’espansione fillicena sarebbe riuscita a vincere anche la resistenza delle razze Nay, Dau e Tua tan, che occupavano le estese terre del Tanh Man Ra, se non avesse trovato l’ostacolo naturale delle invalicabili montagne della catena Desmoro, quelle che i tamrai chiamano Pir Ul Kelt.

I filliceni erano esperti navigatori: sapevano tracciare le rotte ed erano capaci di utilizzare le stelle come riferimento nella navigazione notturna. Avevano una discreta flotta militare, ma soprattutto erano ineguagliabili nel commercio: navigavano con le loro navi mercantili sempre vicino alle coste. Ciò aveva lo svantaggio di allungare notevolmente i viaggi, nel caso di coste molto frastagliate, ma permetteva ai marinai filliceni di rifornirsi d’acqua dolce e viveri, e, soprattutto, di poter commerciare con le popolazioni costiere.

Tali presupposti marinareschi avrebbero permesso ai filliceni di invadere il Tanh Man Ra attraversando il Golfo di Daras, ma essi non lo fecero.

Gli storici sostengono che la rinuncia fu dovuta solo a considerazioni di natura economica: lo sforzo per tale invasione non avrebbe portato compensi e ricchezze da una terra che veniva considerata povera e in gran parte desertica.

Altre fonti, forse più attendibili, consideravano il fatto che non esistesse, all’epoca, una vera nazione fillicena che riunisse tutte le città. Sembrava che ognuna di esse, rette da un re locale, da solo o insieme con altri uomini dell’aristocrazia, agisse per conto proprio.

Le leggende narrano, invece, che fu la superstizione a fermare l’invasione fillicena. Il Golfo prendeva il nome da Daras, una malefica divinità marina, che sembrava facesse affondare o naufragare ogni nave che osasse passare nei suoi confini.

Col passare degli anni, però, le cose cambiarono e le città fillicene si coalizzarono. In seguito, con l’unione in un unico regno, la Terra di Grund attraversò un periodo fiorente. Fu in quest’occasione che venne fondata la città di Filla, la più moderna e grande della Terra di Grund, e stabilita come la capitale del nuovo regno.

La religione fillicena subì una grossa evoluzione in seguito a tale unione. Prima d’allora ogni città era un’entità a sé stante e in ognuna di esse era venerata una divinità diversa, a cui era dedicata almeno una festa annuale.Tra le divinità minori più famose c’era Amhunta, dea della pesca e della caccia, protettrice di Pinion. Il protettore di Xeropol era una divinità del mare senza nome: veniva chiamato da tutti Signore di Xeropol.

Con la nascita del regno, Maelma, dea degli antichi pionieri filliceni, divenne la madre di tutti gli dei che ella aveva generato, secondo il mito filliceno, dal caos primordiale.

Nell’occasione fu eretto, in suo onore, un sontuoso tempio a Filla. I templi filliceni avevano normalmente una sola camera centrale, cioè erano dedicati ad una sola divinità. Quello di Pinion, e pochi altri, conteneva statue accessorie dedicate ad altre divinità.

Altre due antiche divinità fillicene come Kuolem, la signora della morte, e Araiak, il padre della terra, mantennero la loro identità nella religione grundiana. Le divinità locali rimasero tali e in alcuni casi sparirono, come quella di Usi, che sarebbe stata in contrasto con Araiak.

Nei villaggi nomadi della Steppa di Xer e in villaggi più piccoli erano tuttora venerati, come divinità, anche alcuni astri come il Sole e la Luna. In alcuni casi anche montagne, fiumi, alberi e pietre erano ritenute sacre.

Ora, però, un fatto terribile stava abbattendosi sulla storia grundiana: l’antica e fulgida civiltà fillicena rischiava la fine. La libertà sembrava ormai persa grazie all’incoronazione di Re Thamas, un uomo servo dell’impero. Tutti i grundiani erano diventati, di fatto, schiavi dei tamrai.

A dimostrazione e testimonianza di quest’asserzione c’era l’esercito tamrai accampato subito fuori delle mura di Filla.

Finita la cerimonia, il generale Testa di Pietra tornò, soddisfatto, nella sua tenda al centro dell’accampamento militare tamrai. Fece un cenno al suo attendente: «Chiamatemi il capitano Zor Kul Dau». Questi aveva ottenuto la promozione, da capo unità a capitano, per la sua ottima azione nell’inseguimento del filliceno.

Arrivato al cospetto del generale il capitano si batté il pugno sul petto: «Mio Uahn! Come posso servirti?»

Lo sguardo infuocato del generale si posò sul capitano e la sua voce tuonò: «Mi hai detto che il filliceno era morto.»

«È così, Uahn», rispose un po’ intimorito il capitano.

«Ho saputo, da fonti attendibili, che ieri sera girava per la città un soldato filliceno che affermava di essere scampato al massacro di Ingbrook. Non ti faccio tagliare la testa perché, per tua fortuna, nessuno oggi si è presentato a reclamare il trono della Terra di Grund. Se ci tieni, però, alla tua inutile e stupida vita, devi scoprire se il filliceno si è salvato dalle frecce e dalle cascate. Nel malaugurato caso che ciò fosse successo, devi trovarlo e portarlo da me, vivo o morto!», tuonò il generale con uno sguardo che sembrò volesse fulminarlo.

«Sarà fatto, mio Uahn», il capitano si batté il pugno sul petto e uscì, di buon passo, dalla tenda del generale.



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