I due “fratelli” lasciarono alle loro spalle la porta nord di Filla. Era metà mattina: il sole brillava in un cielo sereno, completamente privo di nuvole. La strada, polverosa e segnata dalle ruote dei carri, correva, in lievi saliscendi, verso nordovest. Nim e Mary la seguirono fino a raggiungere l’incrocio con un percorso più grande: verso ovest il paese di Ridde, verso nordest la direzione del Principato di Jamoor.
«Portami con te, Nim», disse la ragazza abbracciandolo ed aggiungendo in tono mesto: «Ora non posso più tornare a Filla.»
«Lo so, e mi dispiace! È solo colpa mia. Non dovevo venire da te, ieri sera», il tono di Nim era dimesso, ma non sostenne il suo abbraccio.
«Sai benissimo che i tamrai sarebbero venuti, in ogni caso, da me ieri sera. Credo che tu non mi abbia messo nei guai, credo, invece, che tu mi abbia salvato la vita», disse Mary per tranquillizzarlo.
«Sì, forse è così! Di sicuro è uno dei motivi per cui, nonostante il pericolo, ieri sera sono venuto a casa tua. Sento, però, ugualmente il peso della colpa. Se non fossi apparso nella tua vita, ora non saresti nei guai»; Nim sembrò veramente dispiaciuto, mentre accarezzava con mano leggera il volto della donna.
«In realtà sono io che sono apparsa nella tua», disse Mary in un risolino, «Non ricordi più, tesoro, il mio sfacciato approccio?»
Nim, dopo tanto tempo, rise.
Mary diventò, però, improvvisamente seria. Girò lo sguardo verso la città di Filla e disse con voce grave: «Nessun guaio è più grande, però, di quello in cui è caduto il nostro popolo. Siamo in balia dei tiranni e lo sanno solo gli dei, quando finirà il nostro tormento. Portami con te, Nim», ripeté la ragazza stringendosi a lui.
«No!» disse in tono sicuro e risoluto Nim, «E non è perché non ti voglia con me!», assicurò in tono più dolce accarezzandole una guancia. «Sto andando incontro ad un destino che nemmeno io conosco, forse lungo la strada mi aspetta la morte. Non ho intenzione di mettere in pericolo le poche persone che sono care nei miei pensieri, e tu sei una di queste, Mary», spiegò con sincerità.
La ragazza capì: «Che gli dei ti siano sempre vicino, Nim», gli disse dandogli un bacio sulla bocca.
«E tu cosa farai?» chiese alla ragazza.
«Andrò a Ridde, da mia sorella Kathyl», rispose Mary, con un sorrisetto furbo.
«Pensavo non esistesse, come non esisteva tuo fratello Walter», rise divertito Nim.
«Oh no! Esiste eccome. È sempre stata, per me, più una madre che una sorella. Sono scappata da lei perché non riuscivo più a sopportare le sue attenzioni protettive che limitavano il mio spirito libero. Ma so che mi vuole bene e anch’io gliene voglio», il volto di Mary era diventato più luminoso nel parlare della sorella.
Nim l’abbracciò forte e ricambiò l’augurio che aveva ricevuto dalla donna: «Grazie per il tuo aiuto, che gli dei ti accompagnino, mia cara Mary.»
E ognuno s’incamminò sulla sua strada, senza girarsi più indietro.
Nim guardò avanti: la strada polverosa correva in direzione di Pewick, serpeggiava accompagnando le sinuose variazioni delle lievi colline e si perdeva all’orizzonte. Non riuscì a non pensare ad Ecyl. La confrontò con Mary e scoprì che la ragazza di Pewick occupava un posto ben più grande nel suo cuore.
Il suo istinto lo distolse da questi pensieri. Si fermò e si mise in ascolto. Nessun dubbio, un rumore di galoppo di cavalli in lontananza. Abbandonò in fretta la strada e si acquattò dietro un cespuglio, oltre il ciglio del percorso. Poco dopo passò un drappello di una mezza dozzina di soldati tamrai. Forse era una semplice ronda in perlustrazione o forse lo stavano cercando.
L’esperienza della fuga da Ingbrook gli aveva insegnato ad usare una maggiore prudenza. Decise di cancellare le sue tracce e di abbandonare la strada. Grewill gli aveva detto che la strada principale sorpassava Filla curvando verso sud per puntare al lago Megara. Prima della curva un bivio verso sinistra segnava l’inizio della strada che si dirigeva verso nord in direzione della foresta di Caldera: era quest’ultimo il percorso che Nim doveva prendere. La strada si snodava, tra gli alberi della foresta di Caldera, insinuandosi tra le colline dei Tre Draghi. Per la precisione essa puntava in direzione della collina centrale. In prossimità della stessa, la via compiva un’ampia curva verso sinistra e quindi la aggirava curvando, in direzione opposta, oltre di essa. Il grosso sentiero, immerso nel verde della foresta, saliva sul piccolo valico tra la prima collina, chiamata Aruth e la seconda, di nome Argod: la terza collina all’estremità orientale si chiamava Argalyn.
Si trattava di tre alti e aguzzi colli, la cui cima sovrastava la folta foresta. I nomi a loro assegnati erano quelli di tre leggendari e potenti draghi. Leggende narravano che, nelle rispettive colline, erano stati pietrificati gli spiriti di quelle creature: un giorno i draghi sarebbero tornati, reincarnandosi in tre animali.
Nim osservò, in lontananza, le tre sagome scure delle colline che spuntavano, minacciose, sopra le cime degli alberi. La suggestione delle leggende, che aveva ascoltato, si mescolò agli effetti di luce emanati dagli ultimi raggi del sole, ormai basso sull’orizzonte. Nim ebbe l’impressione di guardare tre enormi e possenti draghi, posti a guardia dell’intera foresta.
Il giovane abbandonò la strada polverosa incamminandosi nella piana e tagliando attraverso i campi. Calcolò, nella sua mente, la direzione giusta da prendere: decise di seguire il tragitto verso il varco tra Aruth e Argod. Avanzò con cautela nascondendosi, ove possibile, tra i pochi alberi ed arbusti. Era molto vicino alla collina di Argod, quando incrociò di nuovo la strada. Come aveva pianificato, non la seguì, ma l’attraversò, cancellando con cura le impronte che vi aveva lasciato. S’inoltrò, quindi, nella foresta che riprendeva oltre la strada.
Nim guardò verso ovest. Pose una mano sulla fronte per riparare gli occhi dai raggi del sole morente. Il crepuscolo era più tenebroso del solito: scure nubi iniziavano ad invadere il cielo, fino ad allora sereno.
Prima che fosse del tutto buio, Nim decise di cacciare della selvaggina per procurarsi il cibo. Era quella una zona di foresta molto temuta, ricca di leggende e superstizioni. Per questo vi si avventuravano ben pochi cacciatori e la selvaggina abbondava. Ben presto trovò tracce di cervi, e, nonostante non avesse con sé un arco, iniziò a seguirle. Sguainò la spada, pronto ad eventuali incontri.
La foresta era fitta. In dei punti le cime degli alberi oscuravano completamente il cielo. Il sottobosco era denso di svariate specie di piante e d’erbe dall’odore a volte inebriante, altre soffocante. Forse proprio quest’intrigo di vegetazione permise a Nim una più facile lettura delle zone aperte dove gli animali erano passati. Infine trovò il branco di cervi: stavano abbeverandosi ad un ruscello. Prese di mira una delle femmine più piccole: quella più vicina a lui. I suoi muscoli erano tesi e pronti a lanciarsi sull’ignara preda.
All’improvviso, però, il branco si disperse: i cervi iniziarono a fuggire in varie direzioni, con ampi balzi e con le pupille dilatate dal terrore. Nim capì che non era lui la causa dell’improvviso panico che si era impadronito del branco. Vide, infatti, parecchi di quei ruminanti correre verso il punto in cui si trovava.
Al loro inseguimento, emerse una scattante e veloce figura dalla pelle lucida e nera come il catrame. Si trattava di una pantera, un brutto e scomodo concorrente di caccia. Nim rimase sorpreso dall’apparizione del felino e stette immobile, come pietrificato, a guardare la scena, mentre i cervi saettavano accanto a lui, scartandolo e allontanandosi veloci. Il felino notò la nuova preda ferma e attonita: era ora quella più vicina ai suoi artigli. La pantera cambiò l’obiettivo del suo attacco e si lanciò su Nim con un poderoso e saettante balzo. La belva non avrebbe potuto fare scelta peggiore: Nim aveva già la spada sguainata e la colpì, lacerandole buona parte del fianco sinistro. La pantera ferità ruggì rabbiosa e si avventò sull’uomo conficcando gli artigli sulla spalla sinistra del giovane. Il dolore fu bruciante. Nim avvertì un’onda spasmodica partire dalla spalla e infrangersi dentro il suo cervello. La reazione dell’uomo fu ancor più caustica: assestò un colpo, penetrando il costato dell’animale con la lama e tagliando in due parti i suoi ventricoli. Un fiotto di sangue caldo irrorò la mano di Nim. In breve sentì la presa degli artigli allentarsi dalla spalla e il peso morto del grosso felino su di lui.
Si toccò la spalla preoccupato, aveva una brutta ferita. Osservò la lesione di sbieco: sembrava che avesse ricevuto tre pugnalate, una accanto all’altra. Avvertì una sensazione di svenimento, ma strinse i denti e corse al ruscello. Lavò le lesioni eseguendo, poi, una rudimentale fasciatura per tamponare il sangue. Approfittò dell’occasione anche per riempire le borracce d’acqua. Nei giorni che aveva vissuto a Pewick aveva imparato, da Agas, a riconoscere l’artemisia che il vecchio usava per evitare l’infezione delle ferite. Si mise a cercarla, per fortuna la pianta era diffusissima nella foresta e non ci mise molto a trovarla. Iniziò a sentire freddo, avvertì di nuovo la sensazione di svenimento, sentì salire la febbre. Doveva trovare un riparo per la notte.
Raggiunse a fatica, e ormai al buio, i dirupi iniziali della collina di Argod. Iniziò a salirne il pendio in direzione del tramonto e trovò infine una grotta che si apriva, come una ferita, nel cuore della collina. Procurò degli sterpi e della legna e quindi avanzò, per un bel po’, all’interno della caverna. Aveva bisogno di accendere il fuoco e voleva farlo, il più possibile, lontano dall’ingresso.
Quando le fiamme crepitarono vive e sicure, versò un po’ d’acqua dalla borraccia in un piccolo pentolino che aveva nello zaino e che mise sul fuoco. Preparò degli impacchi caldi con l’artemisia e li sistemò sulla ferita, rifacendo la fasciatura. Si sistemò in un giaciglio ricavato accanto al fuoco. Si addormentò a fatica, nel delirio della febbre alta e tra i tormenti della fame.
Nim non era superstizioso, ma nella sua mente evocò immagini e suggestioni sulla leggenda che gli avevano raccontato a Filla. Nell’agitazione degli incubi venne a galla tutta la sua inquietitudine. D’improvviso nell’aria esplose un mostruoso ruggito. La pelle di Nim impiegò un istante ad accapponarsi, quando risuonò di nuovo l’animalesco grido. Una luce fiammeggiò in fondo alla caverna e raggiunse le sue pupille. Nim si alzò e si mosse, con cautela, nella direzione del bagliore. Dall’oscurità della caverna emerse una grossa e terrificante sagoma nera: una figura enorme e spaventosa di drago. Nim rimase paralizzato dal terrore, una forte emozione lacerò il suo petto e un brivido frizzò lungo la pelle.
La testa tozza del drago era sormontata da una corona di cinque grandi e appuntite corna di lucido avorio. Il rostro centrale, più piccolo degli altri corni, era, però, proteso minaccioso in avanti spuntando dalla sommità della fronte. Le due corna posteriori, che identificavano il drago come maschio, le femmine ne erano infatti prive, erano più corte. Quelle centrali, ai lati della testa, sovrastavano due piccole orecchie mobili e appuntite.
Due profonde narici scure si aprivano direttamente sul muso del drago: da esse sbuffavano, di tanto in tanto, nuvolette di vapore. Squame cornee, dal lucido e metallico colore nero, coprivano il corpo della creatura disposte su esso come gli embrici di un tetto. Le quattro possenti zampe, quelle posteriori più forti e sviluppate, terminavano ognuna con tre artigli ricurvi e appuntiti, grandi come braccia umane. Le ali membranose erano rafforzate da una fitta intelaiatura di robusto scheletro osseo che si diramava, a ventaglio, da articolazioni simili ad aggiuntive zampe. Possenti muscoli permettevano di muovere le ali e di sostenere in aria il gran peso della creatura, assicurandole l’agilità del volo di un’aquila.
Il drago si sollevò in piedi sulle zampe posteriori emettendo un feroce ruggito. Nim ne stimò un’altezza di oltre cinque metri e fu colpito dalle estese e sviluppate squame che coprivano il torace: avevano l’aspetto di robusti scudi posti a protezione delle parti più critiche di quell’essere terrificante.
La lunga, e micidiale, coda sferzò l’aria con poderoso schiocco: dalla punta di essa e lungo la spina dorsale, correva una serie d’acuminati corni che arrivavano fin quasi all’inserzione delle ali.
La creatura si abbassò di nuovo e camminò verso Nim sulle quattro zampe. Poi allungò il collo lungo e tozzo verso di lui e lo guardò con i grandi occhi arancio pallido e con le nere pupille lenticolari. Le trasparenti squame protettive si chiusero e riaprirono sopra le cornee, in rapida successione, accentuando l’aspetto terrificante del suo sguardo.
L’enorme bocca si aprì lasciando intravedere le due acuminate file di denti. L’avorio delle due minacciose zanne superiori, lunghe più del doppio degli altri denti, luccicò sinistro.
L’emozione di Nim crebbe nel petto, quando riuscì a sentire la voce del drago, o almeno così credette. Non la avvertì attraverso le proprie orecchie, bensì la sentì nascere dentro di sé, direttamente nella sua mente.
«Salute a te tallen vat», disse il drago schioccando la grossa lingua appuntita e tumida.
Nim rimase affascinato dalla potente figura. Giudicò che la sua lingua, da sola, sarebbe stata in grado di schiacciare una grossa preda fra le fauci.
«Mi chiamo Argod. Il nostro potere di draghi risiede nel fuoco. Da secoli attendiamo il potere di colui che è stato salvato dalle acque. Se tu supererai la prova del mio fuoco, vorrà dire che sei il tallen vat che aspettavamo da tempo», continuò la voce del drago che risuonò, cavernosa, nella mente di Nim.
«Di quale prova parli?» chiese Nim, non senza timore e mettendo, d’istinto, la mano sull’elsa della propria spada.
«Di questa!» rispose in un ghigno il drago, mentre alitò dalla bocca un’incandescente fiammata verso di lui.
Nim alzò, per istinto, la spada davanti a sé intercettando la scia di fuoco con la lama. La spada sembrò assorbire tutta la fiamma: la risucchiò fino a diventare incandescente. Il forte calore si propagò sulla mano e Nim fu costretto a lasciare la spada gettandola a terra. Il giovane fissò con sguardo sbigottito la lama rovente. Notò l’azzurro zaffiro sul pomolo lampeggiare emettendo strani bagliori rossi.
In quel momento un lampo squarciò l’oscurità della caverna, illuminandola a giorno, e un tuono rimbombò, poco dopo, all’esterno.
La figura del drago si stagliò, ancor più maestosa, nel lampo di luce. L’essere parlò di nuovo: «Tallen vat. Hai superato la prova del fuoco. Ti rivelerò il tuo destino, se lo vorrai».
«Non credo nel destino, ma tu prova a dirmelo ugualmente». Nim aveva una fermezza e un coraggio che non si aspettava, sentiva di poter tenere testa al mostruoso drago.
«Ti ho donato la forza del fuoco, in cambio di parte della forza dell’acqua che scorre già nelle tue vene. Non so se tu conosci già queste forze: sappi che ora nel tuo sangue scorrono entrambe, come nel mio. Il tuo destino non è semplice da compiersi. Un giorno incontrerai un altro tallen vat e dalla vostra unione nascerà la forza per sconfiggere il male che si è impadronito della Terra di Grund. Questo scambio di potere ci ha legato per sempre. I miei due fratelli ed io, abbiamo legato il nostro destino ai tallen vat della profezia: questo legame ci permetterà di tornare e di abbandonare la nostra attuale prigione. Inoltre temiamo la tirannia e la crudeltà tamrai che potrebbero annientare le nostre, e le vostre, vite per sempre. Un giorno, quando le due Spade di Sinrasil saranno unite, i nostri spiriti verranno liberati dalle pietre di queste colline».
«Molte delle cose che hai detto, io non le comprendo. Come pretendi che io possa prestare fede a quello che dici?» chiese Nim scuotendo la testa.
«Verrà un giorno in cui la tua mente sarà liberata dai dubbi e dalle incertezze che ti opprimono. Un giorno, per te, tutto sarà più chiaro. Ricordati quello che ti ho detto: l’unione delle Spade di Sinrasil permetterà di liberarci e di combattere al fianco dei tallen vat, anche se avremo, allora, un aspetto diverso», affermò Argod ed i suoi occhi si accesero come due carboni ardenti.
«Ammesso che sia tutto vero, come potrò riconoscervi?», chiese Nim.
«Quando sarà il momento, lo capirai», rispose laconicamente il drago.
Il cinguettio degli uccelli proveniente fuori dalla grotta lo svegliò proprio all’alba. Sembrava che la febbre lo avesse abbandonato. Aveva di nuovo sognato. Stavolta, però, non aveva fatto il solito sogno del vascello e questo lo stupì un po’. Ricordava, inoltre, perfettamente le parole del drago Argod, cosa che non gli capitava spesso nei sogni.
Smise di pensare, aveva da rimettersi in cammino e iniziò a raccogliere le sue cose. Rimase quasi paralizzato, quando sollevò la spada: la lama aveva assunto un colore dorato e la runa era cambiata, il simbolo simile ad una R, sormontava ora una piccola runa spiraliforme.