Il Principato di Jamoor era una terra ricca. La principale risorsa era la lavorazione e produzione del pregiatissimo ebano di Jamoor, presente in abbondanza nelle sue foreste.
Anche la pesca era un’attività rigogliosa tra i filliceni, visto le loro esperienze marinaresche, ma soprattutto a Jamoor grazie anche al pescoso Mare delle Nebbie dove abbondavano tonni, merluzzi, balene e altre varietà di pesci.
Ricchissime miniere di rame e argento si trovavano inoltre nel territorio della Catena Settentrionale.
L’economia di tutti i grundiani si basava, in maggior parte, sull’agricoltura: estesi campi di grano nelle pianure, vigneti e oliveti nelle zone collinari. Ottimi e rinomati erano i vini e l’olio d’oliva, oggetto di lucrosi commerci. Tra tutti i vini spiccava il famoso Ambrato bianco prodotto nelle colline di Briador. I filliceni producevano anche dell’ottima birra, la migliore era la Rossa di Ibris prodotta a Denyo vicino agli omonimi monti.
L’artigianato filliceno si segnalava soprattutto per il trattamento dell’acciaio e del bronzo; ma dove essi eccellevano era la lavorazione dell’avorio e dell’ebano. I filliceni erano bravissimi nello scolpire l’avorio, nell’incastonarvi oro e pietre preziose e nell’applicare smalti con assoluta maestria. Abili artigiani filliceni ricavavano con l’avorio e l’ebano anche le famose scacchiere di Andra corredate da sopraffini pezzi degli scacchi. Questo era il gioco più diffuso tra i filliceni; essi affermavano di averlo inventato e soprattutto di essere i più forti giocatori di scacchi dell’intera Dusdonia.
Anche le stoffe fillicene, in particolare lane e sete, erano molto rinomate: le più belle sete venivano create nella regione di Filla. Tra le altre attività era diffusa l’oreficeria, la soffiatura del vetro e l’arte della ceramica. Quest’ultima era particolarmente fervente in Filla Alta dove si teneva, ogni settimana, un mercato delle ceramiche, nell’omonima piazza, che richiamava una gran folla da ogni parte del regno.
Il principato di Jamoor era una delle regioni più fedeli alla corona dei Rostead. Da sempre imparentato con la corona regnante aveva supportato in ogni attività la famiglia reale. Ultima prova l’invio d’uomini nella battaglia di Ingbrook guidati dal valoroso principe Philip caduto in combattimento.
Il principato era in lutto per la perdita del giovane principe. Ma, per il resto, sembrava non essere ancora contagiato dalla peste bubbonica scatenata dall’invasione tamrai. Nim entrò in Pinion senza bisogno di lasciapassare.
La capitale del principato era un’attiva città portuale, ma anche una roccaforte cinta da alte mura. Esse a nord cadevano a strapiombo sul mare, una zona in cui la città era praticamente inattaccabile. Una parte di queste mura cingeva la zona portuale, separandola dalla città. Le poderose mura di cinta erano integrate da una ventina di torri, grandi strutture difensive che assicuravano il controllo perimetrale della città.
Il caratteristico rancido puzzo dei tamrai non aveva ancora invaso Pinion; si respirava un aria ben diversa da quella di Filla. Nim si chiese però: “fino a quando?”
La piazza, prospiciente al porto, separata da esso dalle mura e dalla porta nord, conteneva a fatica l’andirivieni di gente tra le bancarelle del mercato. Un forte odore di pesce esalava dai numerosi banchi popolati da cassette di sardine, tonni, merluzzi, polpi, gamberi e tante altre specialità marine.
Nim vi arrivò attraversando il giardino davanti al museo. In mezzo al verde prato campeggiava la statua di Amhunta, la dea della pesca e della caccia, protettrice di Pinion. La bruna dea, dai lunghi capelli, accoglieva a braccia larghe, chiunque andasse a pregarla e venerarla. Indossava una lunga tunica bianca, stretta in vita da un fascio di vimini intrecciati. Davanti ai suoi piedi un piccolo altare per le offerte e i sacrifici in suo onore. Nim ebbe un istintivo gesto d’inchino passando davanti a lei; ma non si soffermò, proseguì diretto alla piazza del mercato.
Aveva intenzione di intrattenersi con i mercanti: voleva scambiare con loro, con la scusa di esaminare la merce, qualche battuta sul principe Philip. Voleva sapere la loro opinione su di lui, ma principalmente, in cuor suo, sperava che qualcuno potesse riconoscerlo come Philip.
Nim notò che tutti ne parlavano bene e con mestizia per la sua morte. La gente si esprimeva molto bene anche sul padre, il marchese Joseph di Jamoor, considerato un uomo d’animo nobile e di giusti e sani principi.
Nim rimase incuriosito nel vedere un distinto signore con la barba grigia ben curata e degli occhialetti tondi poggiati in equilibrio sul naso. Egli, seduto davanti un tavolo, posto in un angolo della piazza, scribacchiava su carte e pergamene con la sua penna d’oca che intingeva nel calamaio pieno d’inchiostro di seppia.
I filliceni furono tra i primi a adottare il sistema dei pagamenti a mezzo lettere di credito: tra le nuove e proficue attività era sorta quella dei banchieri; il distinto signore era uno di questi. I banchieri si occupavano di custodire il denaro, loro affidato, corrispondendo un interesse, di dare prestiti riscuotendo un interesse, naturalmente maggiore. Tra le altre cose si occupavano del pagamento delle transazioni commerciali a distanza. Si trattava in genere d’uomini di provata onestà che avevano le loro botteghe accanto ai grandi porti o, nei giorni di mercato, esercitavano le loro funzioni, come faceva appunto l’osservato di Nim, nella pubblica piazza. Questo sistema aveva dato un forte impulso al commercio filliceno.
Nim non ebbe il coraggio di distoglierlo dal suo importante lavoro facendo domande, decise quindi di avvicinarsi al banco della frutta posto più avanti.
La mercantessa di frutta sorrise e rispose, alla sua domanda su Philip, in maniera semplice e schietta: «Era bello, era proprio come te straniero.»
Nim fu colto da palpitazioni nel sentire l’affermazione della commerciante.
«Ma cosa dici donna!», intervenne il collega del banco accanto, «Il principe Philip, che gli dei accolgano la sua anima, aveva capelli rossi e barba lunga ed era più basso e di corporatura più robusta di questo giovanotto.»
«Non capisci proprio nulla Boris, io facevo solo un complimento a questo bel ragazzo», rispose la donna picchiettandosi la tempia con un dito.
Forse Nim aveva trovato l’interlocutrice giusta per fare qualche altra domanda, anche se ormai era chiaro che lui non poteva essere il principe Philip.
«E dimmi donna...», proferì Nim interrotto però dalla mercantessa, «Mi chiamo Anne.»
«Dimmi Anne», corresse Nim, «oltre ad essere bello, com’era Philip?»
«Non è che lo conoscessi poi molto», rispose Anne, «ti dico solo che il principe sarebbe potuto rimanere qui a Pinion, al sicuro. Decise invece di partire con i suoi uomini per Ingbrook per difendere la Terra di Grund, la terra dei nostri padri, dai nemici invasori. Rispose senza indugio all’appello di Re Inghard e ne condivise, come tu sai, la triste sorte.»
Intervenne anche Boris aggiungendo il suo pensiero a quello di Anne: «Ora però il principe è tornato a casa. Le sue spoglie sono state restituite all’affranto padre. È stato tumulato nella tomba della famiglia Jamoor, da pochi giorni.»
Un uomo austero e ben vestito aveva notato lo straniero e le domande che faceva alla gente. Lo seguiva ormai da qualche ora, spiandolo. Aveva ascoltato le ultime conversazioni tra Nim, Anne e Boris. Era inequivocabile che lo straniero stesse indagando sul principe Philip.
L’uomo andò a chiamare due guardie e quindi si presentò, con loro al seguito, davanti a Nim.
«Seguimi!» gli ordinò in un tono che non ammetteva rifiuti.
«Perché dovrei seguirti?» chiese Nim scuotendo il capo.
«Per l’autorità conferitami dal marchese di Jamoor», rispose, «sono Marwin Heirick, ufficiale delle guardie personali del marchese e addetto alla sicurezza di Pinion. Se non mi seguirai con le buone, ti farò arrestare dalle guardie.»
«Con quale accusa?» si contrappose con decisione Nim, sfidandolo con un’espressione corrucciata.
Marwin non si scompose: «Per spionaggio!» disse secco, poi vista l’espressione sbalordita dell’interlocutore aggiunse: «Hai fatto troppe domande su membri che governano questo principato.»
Nim fu indeciso su come comportarsi: da un lato non gli andava, naturalmente, di essere arrestato, ma dall’altro non gli andava nemmeno dover combattere, fatto che avrebbe portato a possibili spargimenti di sangue. Ancor meno voleva combattere con rappresentanti degli Jamoor di cui aveva sentito parlare un gran bene.
«Va bene, ma se vengo con voi, dove mi porterete?» chiese infine.
«A palazzo. Dovrai rispondere al marchese in persona dei motivi del tuo comportamento», spiegò l’ufficiale con tono duro.
Nim si rallegrò invece di questa fortunata circostanza, avrebbe potuto conoscere il marchese Joseph e sottoporgli il suo caso.
«Va bene, vi seguo. Fate strada», accettò Nim.
I lineamenti del volto di Marwin si distesero e l’ufficiale si avviò soddisfatto verso una stradina laterale della piazza del mercato, Nim lo seguì: dietro di lui le due guardie. Per strada un dubbio iniziò a rodere la mente del giovane: e se il marchese fosse in combutta con i tamrai? Sarebbe stato per lui come auto condannarsi a morte. La sua mente cercò ragionamenti che potessero tranquillizzarlo. Mentre l’ufficiale superava un piccolo ponte sopra una profonda insenatura del mare, Nim sembrò trovare il giusto teorema: può un padre, a cui è stato ucciso il figlio mandato in battaglia, essere in complotto col nemico? Il cuor suo rispose deciso: no! La ragione, però, gli imponeva di riporre la fiducia solo nelle persone che la meritassero. Ma chi poteva dire con certezza se il marchese meritasse o meno la sua fiducia? Decise che si sarebbe affidato al suo istinto, quando avrebbe conosciuto Joseph di Jamoor.
Nonostante l’accusa di spionaggio mossa a suo carico, il marchese accolse Nim con cordialità e con un sorriso triste. I suoi vecchi occhi scuri erano sostenuti dal caratteristico gonfiore, sotto le palpebre, tipico dell’età avanzata e sicuramente aggravato dalle lacrime versate per il giovane figlio.
«Perché chiedevi notizie di mio figlio?» chiese gentilmente il vecchio.
Nim capì, in quel preciso istante, che aveva davanti a se non il marchese di Jamoor, bensì un padre che aveva perso il proprio figlio. Sentì una fitta al cuore anche pensando a suo padre e sua madre: forse anche loro in quell’istante stavano piangendo la sua morte. Non sapeva cosa volesse dire avere un figlio, ma sapeva cosa volesse dire perdere una persona cara. Avvertì, in quelle poche parole, la sofferenza del vecchio e sentì che poteva fidarsi di lui.
«Marchese Joseph, mio signore», disse Nim inchinandosi, «risponderò volentieri alla vostra domanda. Ma la mia situazione è molto particolare e delicata, vorrei farlo in privato.»
«Questo non è possibile», intervenne Marwin in tono autoritario.
«Perché?» chiese gentilmente Nim.
«Per motivi di sicurezza, non posso lasciare il marchese da solo con uno straniero», l’ufficiale rafforzò il concetto scuotendo la testa.
Nim sguainò la spada, altrettanto fecero immediatamente le guardie, ma si fermarono, quando Nim la pose orizzontalmente sulle sue mani: «Ecco la mia spada marchese, la consegno a voi.»
«Questo non è sufficiente!», si oppose Marwin deciso. Il suo tono grave sembrò accentuarsi quando continuò: «La vita del marchese potrebbe, in ogni modo, rimanere in pericolo.»
Gli occhi del marchese Joseph si spalancarono di meraviglia, mentre proferì la domanda: «Una delle spade gemelle di Sinrasil! Dove l’hai avuta? Perché riesci ad impugnarla senza morire?»
«Risponderò a tutte le domande, e altre n’avrò io da porre a voi, visto che conoscete la spada: ma in privato», rispose Nim.
«Lasciateci soli!» ordinò il marchese.
«Ma marchese...», iniziò ad obiettare Marwin, toccandosi con la mano destra la fossetta sul mento.
«È un ordine, Marwin!» disse con fermezza il marchese.
Marwin uscì di controvoglia dalla stanza, le due guardie lo seguirono.
«Grazie per la fiducia marchese», disse Nim con un leggero inchino.
«Non ti conosco e quindi non posso concederti la mia fiducia, ma conosco il potere della spada di Sinrasil e il simbolo dell’Albero Sacro. Chi sei?» chiese il vecchio guardandolo fisso negli occhi.
«Purtroppo non sono in grado di rispondervi, mio signore», disse Nim mestamente abbassando lo sguardo.
«Mi avevi garantito che avresti risposto alle mie domande, rimangi, dunque, la tua parola?» il vecchio era perplesso e irato.
«Non fraintendetemi marchese», spiegò Nim, «non ho detto che non voglio dirvi chi sono, ma che semplicemente non sono in grado di dirlo.»
«Che cosa intendi dire?» chiese il marchese aggrottando un sopracciglio.
«Che sono giunto qua proprio per saperlo. Sono l’unico filliceno superstite della battaglia di Ingbrook, ma un colpo alla testa mi ha fatto perdere la memoria. Sono venuto qua con la speranza di essere il principe Philip», disse Nim, «per questo facevo domande su di lui.»
Una lacrima era spuntata sul viso del vecchio, imperlando la sua guancia. «Tu hai combattuto a fianco di mio figlio, forse lo hai conosciuto, forse lo hai visto morire. Allora non è vero che sono tutti morti! Qualche padre e qualche madre, i tuoi genitori per esempio, potranno riabbracciare il proprio figlio. Io ho già riabbracciato le spoglie del mio Philip e so che non potrà più tornare, ma qualcuno ha qualche speranza.»
«Purtroppo no, mio signore. Io sono l’unico scampato. I tamrai mi hanno inseguito da Ingbrook fino alle cascate di Twilly dove mi hanno conficcato due frecce nella schiena e mi hanno creduto morto.»
«Tu saresti il tallen vat di Pewick?!» esclamò meravigliato il marchese, «Mi è giunta alle orecchie questa storia, ma credevo fosse una leggenda popolare.»
«Invece non lo è. Il guaio è che io non so ancora chi sono. Mi sono assegnato il nome di Nim, ma non so quale sia il mio vero nome», disse il tallen vat, poi proseguì: «Voglio farvi vedere un ritratto, l’ho trovato nel mio zaino, ma non so come l’abbia avuto, né chi sia la donna», disse consegnando il dipinto al vecchio marchese.
Il marchese osservò il dipinto sgranando gli occhi «Dei immortali!» esclamò infine.
«La conoscete?» chiese speranzoso Nim.
«Sì!», rispose il vecchio, «Ma come hai avuto il ritratto? Già, scusa, non lo sai.»
Il cuore di Nim si aprì alla speranza, forse aveva trovato la strada per arrivare al suo passato. «Dalla dedica pensavo fosse mia moglie, trovando lei avrei trovato il mio passato.»
«Mi spiace per te, ragazzo mio», rispose afflitto il vecchio, «ma non può essere tua moglie.»
«Perché dite questo?»
«Perché si tratta della regina Ezianne, la seconda moglie di re Inghard.»
Per Nim il mondo in quel momento aveva smesso di girare. Spariva un indizio importante che lo potesse portare al suo passato.
«So come ti senti, figliolo», disse il marchese.
«Come uno che sta attraversando un ponte, che lo porta a casa, e questo gli scompare improvvisamente sotto i piedi» confessò Nim.
«Re Inghard portava sempre con sé quel dipinto, dopo la morte della Regina Ezianne. Era la seconda moglie che perdeva in pochissimo tempo, da allora non volle più sposarsi. Di questo matrimonio erano a conoscenza solo pochi sudditi. Solo dopo la morte della regina Ezianne, la notizia ebbe una maggiore diffusione», spiegò il marchese.
«Allora come mai avevo quel dipinto nel mio zaino?» chiese Nim.
«Forse tu eri molto vicino al re, una sua persona fidata. Forse te lo ha dato per affidarti un incarico. O forse... dei immortali! L’Albero Sacro!»
«L’Albero Sacro? Qualcuno mi ha già detto che solo chi appartiene a quest’albero può impugnare la spada di Sinrasil. Ma cos’è?» chiese Nim, evitando di accennare, però, a Gamil.
«L’Albero Sacro raccoglie nei propri rami gli spiriti delle dinastie dei sovrani della Terra di Grund. Appartengono all’albero tutti i sovrani e tutti i legittimi eredi destinati al trono.»
«Che cosa vorreste dire, mio signore?» chiese Nim con espressione attonita.
«Che sono io, ora, a chiamarvi, mio signore», rispose il vecchio inginocchiandosi davanti a lui.
«Cosa fate marchese? Alzatevi vi prego», disse Nim afferrando le sue braccia e aiutandolo a sollevarsi.
«Sono giunte voci, mai confermate, che prima di morire la regina Ezianne avesse dato un erede a re Inghard. Nessuno, però, ne ha saputo più niente...», disse a bassa voce il marchese avvicinandosi a Nim.
«Volete dire che Ezianne era mia madre? Che io potrei essere il figlio di Inghard? Questo mi sembra impossibile...»
«... e pericoloso!», aggiunse sempre a bassa voce il vecchio marchese, «I tamrai hanno ucciso tutti gli eredi legittimi al trono, per affidarlo all’ignobile duca Thamas, un burattino nelle loro mani.»
«Sì! Hanno già tentato più volte di uccidermi! So che devo stare attento. Non posso fidarmi di nessuno. Di voi marchese mi fido, ma non dite niente a nessuno che non goda la vostra piena fiducia, ne va della mia vita e del destino della Terra di Grund, ammesso che io sia veramente il figlio di Inghard», si raccomandò Nim.
«Certamente! Potete contare sulla mia fedeltà, mio signore», disse il vecchio.
«Anche il principe Nigham Rathcliff era un erede del Re, io potrei essere proprio lui. Forse questo spiegherebbe anche il nome che inconsciamente mi sono dato, sembra un abbreviativo di Nigham», congetturò Nim.
«Devo deludervi di nuovo. Sono stato al funerale del principe Nigham, ho visto le sue spoglie. Credo che voi abbiate scelto, inconsciamente, il nome Nim perché nell’antica lingua dei nostri padri la parola significa “nessuno”», ipotizzò il vecchio.
«Strano perché non conosco tale lingua, almeno credo di non conoscerla. Non è detto comunque che io sia il figlio di Inghard, l’effetto dell’Albero Sacro sulla spada potrebbe non essere vero. Posso, in ogni modo, contare sul vostro aiuto, se n’avrò necessità? Io continuerò ad investigare per sapere chi veramente sono e finché non l’avrò scoperto non avrò pace», proclamò Nim solennemente.
In quell’istante bussarono alla porta.
«Avanti», invitò la voce di Joseph.
Entrò un soldato che s’inchinò davanti al marchese e disse: «Un drappello tamrai è giunto poco fa in città. Ci sono degli ordini di re Thamas per voi», quindi gli consegnò una pergamena e si congedò.
«Cercano me?» chiese Nim con apprensione.
«No!», rispose il marchese dopo aver letto la pergamena, «Il drappello tamrai prende il controllo della città, per ordine del re. Prima o poi mi aspettavo che sarebbe successo», disse sconsolato.
«Lo impedirò», annunciò Nim risoluto ponendo la mano sull’elsa della spada.
«No! Sarebbe un inutile spargimento di sangue. Arriverebbe poi un esercito tamrai ben più grande e la vostra vita sarebbe in pericolo. Dovete invece compiere il vostro destino e riorganizzarvi per salvare il nostro popolo. Io aspetterò il giorno in cui potremo brandire insieme le spade e ricacciarli tutti nella fogna da cui sono venuti», proclamò il vecchio con voce ferma.
«Visto l’importanza della mia spada, io devo, per prima cosa, recuperare l’anello di Sinrasil alla Torre dei Demoni», progettò Nim, «ho bisogno d’aiuto per evitare che i tamrai m’impediscano di uscire dalla città.»
«Ti farò scortare da Marwin, e due guardie, fino a Cadhor, un villaggio sulle sponde del Lago Superiore. Lì cercherai Wilhem Jarret, un fabbro oltre che un mio uomo fidato. Portagli questo messaggio.» Il marchese scrisse alcune righe su una pergamena e quindi vi appose il suo sigillo e lo consegnò a Nim.
«Ti darà tutto l’aiuto che ti serve», aggiunse poi, tirando una corda che pendeva accanto al suo scranno. Quasi immediatamente, entrò l’ufficiale.
«Marwin. Prendi due soldati con te e scortate questo ragazzo a Cadhor, deve fare un lavoro per Wilhem», ordinò il marchese.
«Si, mio signore», obbedì Marwin.
«Ah, dimenticavo, come compenso ho deciso di dargli Celen, uno dei miei cavalli preferiti. Quindi sellatelo e datelo a lui.»
«Grazie, mio signore», si congedò Nim inchinandosi.