Ecyl si riprese abbastanza in fretta dal mancamento che la lasciò, però, alquanto scossa. La luce rossa, balenata per diversi attimi dallo zaffiro dell’anello, dileguò nel buio. Ecyl sembrò non curarsi del riflesso sanguigno e attribuì la spossatezza agli ultimi avvenimenti che il suo fisico, ma soprattutto il suo spirito, avevano dovuto sopportare in quella densa e infinita giornata.
L’aspro odore della foresta, immersa nella notte serena e illuminata da una luna prossima al plenilunio, sembrò ritemprarla e rinvigorirla. Ma non era solo questo. Avvertì in sé qualcosa di diverso: aveva sensazione di un maggior vigore, di un’energia nuova che scorreva nelle sue vene.
E questa nuova vitalità acuì il desiderio di raggiungere Filla, al più presto: sentiva che, nella capitale, avrebbe trovato molte risposte alle sue domande.
Doveva, però, risolvere il problema dell’attraversamento del ponte. La granitica struttura era presidiata dai tamrai e quindi inaccessibile. Forse avrebbe incontrato uguale difficoltà, anche per superare la porta d’ingresso in Filla. Questi pensieri aumentarono il cupo fastidio insinuatosi nella sua testa: sentì un peso e un dolore lacerarla. Decise che avrebbe risolto un problema per volta e che ci avrebbe pensato l’indomani: ora aveva assoluta necessità di riposare, di lenire la sua stanchezza. Trovò riparo sotto una larga quercia dal tronco semicavo: assomigliava quasi ad una piccola grotta. Fece adagiare Bora accanto a sé e utilizzò una coperta presa dallo zaino. Si addormentò, poco dopo, stringendosi al ventre caldo della giumenta.
L’alba dissipò le ultime ombre della notte e un chiarore baluginò da oriente. Il silenzio della foresta fu interrotto dal suono argentino di una pioggerella leggera. Ecyl si svegliò con il rumore nelle orecchie. Il suo umore, che seguiva spesso il tempo, fece un grosso balzo verso il basso. Ecyl si alzò in piedi, aggrottò la fronte e storse la bocca, il suo umore era proprio pessimo. Toccò la pancia di Bora, che dormiva ancora, e la sollecitò ad alzarsi: «Coraggio, occhi blu», le disse.
La pioggia era leggera ma fastidiosa. Ecyl tirò fuori dallo zaino una sottile mantella di stoffa impermeabile: la indossò sollevando il cappuccio sulla testa.
Si concentrò su ciò che l’attendeva e impiegò poco a risolvere il primo problema: l’attraversamento del fiume Narn. Ricordò che nel villaggio di Pewood, situato nel promontorio sul lago Megara a sud-ovest del Ponte di Granito, c’era un uomo che possedeva una grossa barca. Lo aveva conosciuto, tempo prima, a Pewick, quando venne a consegnare della merce ad Agas. Non riuscì a ricordarne il nome, ma fu sicura di poterlo trovare nel piccolo villaggio. Fu anche certa che l’uomo l’avrebbe aiutata ad attraversare il lago.
S’incamminò verso ovest, in direzione di Pewood, tagliando per la foresta: evitò di tornare sulla strada. Quando raggiunse la sponda del lago Megara, proseguì lungo la riva, sempre verso occidente.
Infine avvistò le prime case di Pewood e riconobbe anche, da lontano, la grossa barca ormeggiata ad un rudimentale molo. Le calme acque del lago Megara, pur battute dalla pioggia, non riflettevano affatto il tumulto di pensieri che attanagliava la mente di Ecyl. Nei suoi recessi turbinavano, ancora, le immagini dell’infausta giornata precedente.
La ragazza si diresse, stringendo con la mano il cappuccio sul volto, verso la capanna vicino al molo, bussò decisa alla porta e rimase in paziente attesa.
Al leggero rumore di passi, che risuonarono all’interno, seguì lo scatto della serratura e la porta fu aperta da una donna che non conosceva. Il suo aspetto emaciato e i tristi occhi scuri lasciarono trasparire il non felice momento che stava attraversando.
«Perdonatemi, signora», disse Ecyl, girando per un istante la testa verso la barca ormeggiata, «sto cercando il proprietario di quella barca.»
«È di mio marito... anzi era di mio marito», disse la donna tristemente, «ora egli non c’è più, è morto ad Ingbrook.»
«Will, si chiamava così, vero?» Ecyl aveva ricordato proprio in quel momento il nome dell’uomo.
La donna annuì, «E voi chi siete?» chiese infine, un po’ preoccupata.
«Mi chiamo Ecyl, ho conosciuto vostro marito a Pewick, quando venne a consegnare della merce al vecchio Agas.»
«Agas, certo! Come sta?» chiese la donna con cortesia.
«Bene! L’ho lasciato a Pewick in ottima salute», disse la ragazza abbozzando un lieve sorriso.
«Io mi chiamo Margit, ma ditemi, perché mi avete chiesto della barca?»
«Bora ed io, abbiamo bisogno di attraversare il lago», spiegò Ecyl.
«Chi è Bora?»
«La mia cavalla, eccola laggiù accanto alla barca», disse indicando.
«Capisco», disse Margit, «i tamrai, che gli dei li maledicano, non ci lasciano più nessuna libertà, dopo che hanno anche trucidato i nostri cari. Ti porterò io dall’altra parte.»
«Grazie Margit», disse Ecyl afferrandole le mani e passandole due monete d’oro.
Margit parve offesa: «Non lo faccio per denaro.»
«Lo so, ma prendetele lo stesso, ora che non c’è più vostro marito, vi faranno comodo.»
La donna esitò, ma infine accettò. Sollevò poi lo sguardo osservando il cielo e la pioggia, quindi rientrò un attimo in casa. Ne uscì, di lì a poco, aggiustandosi sulle spalle un verde mantello incerato e dotato di cappuccio.
«Andiamo!» esclamò tirando l’uscio dietro di sé e avviandosi verso la barca.
La traversata non fu breve né agevole, dato la poca esperienza di Margit nel governo dell’imbarcazione e le condizioni climatiche non certo propizie. Ma infine la prua della barca tagliò la fitta nebbiolina d’acqua, che continuava a cadere imperterrita dal cielo plumbeo, e approdò sulla sponda settentrionale del lago Megara. La scialuppa ondeggiò leggermente quando Ecyl, ma soprattutto Bora, si mossero per scendere a terra.
Ecyl salì a cavallo, si aggiustò il cappuccio sulla testa e alzò una mano in cenno di saluto. Appena Margit rispose con la mano, Ecyl tirò le redini verso destra, la bianca giumenta si girò su sé stessa e si avviò al trotto in direzione della porta sud di Filla.
La pioggia sembrò voler concedere una tregua: l’umore di Ecyl ne fu beneficiato. Nella sua mente si accavallarono vari pensieri su com’entrare in città. Per quanto si arrovellasse, però, non riuscì a trovare un piano degno di questo nome: non riuscì ad escogitare nulla. Decise di fare un tentativo, in cuor suo sperava che il lasciapassare occorresse solo al ponte.
Ecyl, però, si sbagliava.
«Non puoi entrare in Filla, ragazza, se non hai un lasciapassare», la bloccò col suo inconfondibile accento una delle guardie tamrai.
«Ma io... sono un’amica di Zor Kul Dau», disse con un tono che sbalordì anche sé stessa. Le parole erano state emesse, impulsivamente, dalla bocca di Ecyl senza il lasciapassare del cervello. In effetti, non aveva mai pianificato di raccontare una simile frottola. Contrariata dall’intimazione della guardia, aveva parlato d’istinto, senza riflettere. La ragazza si arrabbiò con sé stessa: come gli era venuto in mente di dire una cosa simile.
Il tamrai che l’ascoltò parve un attimo sconcertato e incerto, poi chiamò un collega e parlottò con lui a bassa voce: il secondo soldato si allontanò oltrepassando la porta della città e entrando in Filla.
Ecyl comprese che era andato a chiamare Zor Kul Dau. Nella mente della ragazza si fecero strada due possibili soluzioni. Aspettare a pie’ fermo il capitano, trafiggerlo, al suo apparire, con una freccia e vendicare così suo padre. L’alternativa era di girare subito il cavallo e fuggire via, al galoppo. Stavolta fu il cervello, e non l’istinto, ad operare la scelta: optò per la seconda soluzione, anche perché non conosceva l’aspetto del tamrai che voleva uccidere.
«Fermatela! Ai cavalli presto!» urlò il capo delle guardie.
Bora galoppò veloce, Ecyl seguì l’andatura leggermente sollevata dalla sella e con i neri capelli sciolti al vento, ma non riuscì a fare molta strada: la ragazza fu raggiunta e accerchiata. Non potette fare altro che arrendersi.
In groppa a Xinas, Agor assisté da lontano, e impotente, alla cattura della ragazza. Il cavallo del mago era uno stallone d’otto anni, un baio dal mantello segoso e dal lucido pelo rosso; la criniera nerissima, come la coda e le parti inferiori degli arti. L’aspetto leggero e agile, dal portamento elegante, nascondeva la sua gran resistenza e forza fisica.
Il mago seguì i soldati da lontano. Vide i tamrai legare Bora alla staccionata vicina al posto di guardia e quindi spingere la ragazza oltre la soglia dell’alta torre alla destra della gran porta d’ingresso alla città. Poco dopo entrò, nello stesso torrione, un capitano tamrai.
Ecyl era stata condotta in una sala di tortura posta al piano più alto della struttura fortificata. I polsi e le caviglie della ragazza, erano stati legati, con cura, alle estremità di una croce di sant’Andrea.
Zor Kul Dau non si fece attendere molto. Il capitano tamrai entrò nella stanza e squadrò la ragazza. Girò intorno a lei osservandola col disprezzo dipinto sul volto. «Così tu saresti una mia amica?», chiese in un risolino sarcastico. Il tamrai aveva capito d’avere di fronte la ragazza di Pewick.
Ecyl non rispose, ma sostenne il suo sguardo: sentimenti contrastanti, tra odio e paura, si agitavano nel suo cuore.
«Gli amici dei miei nemici, non sono miei amici!» urlò il capitano, spingendo la faccia quasi a contatto con quella di Ecyl.
La ragazza avvertì il profondo odio per quell’uomo divampare dal suo cuore. Il disprezzo fu acuito dal disgusto del suo rancido fetore e la ragazza reagì sputandogli in faccia.
Il capitano si bloccò per un breve attimo: incerto e incredulo. Si asciugò il viso col dorso della mano, poi reagì con violenza: sferrò un poderoso destro sul viso della ragazza che cominciò a sanguinare dalla bocca.
«È questo il “liquido” che più si addice alle tue labbra», urlò in preda all’ira il capitano, «e al tuo ventre», continuò colpendola con un calcio nel basso addome. Poi, con le tozze mani, afferrò la gola di Ecyl e iniziò a premere i suoi pollici. «Un collo così delicato, come è facile spezzarlo», disse con disprezzo.
Ma l’ira del capitano lasciò, ben presto, il posto alla paura. Nella sua mente vide sé stesso legato alla croce al posto della ragazza. Il generale lo apostrofava con ghigno crudele: “Stupido idiota! Non hai ancora preso il filliceno”, poi sollevava la spada, contro di lui, con ira tremenda.
La ragazza non doveva morire. Era l’unica che potesse condurlo dal sopravvissuto di Ingbrook. Sfogò così la sua rabbia strappandole le vesti di dosso.
Le splendide gambe della ragazza furono guardate con ammirazione e cupidigia dai soldati. La linea piacente era posta in risalto dal corpetto che indossava sotto la veste. Il capitano non sembrò, al momento, accorgersi della sua avvenenza e iniziò a colpirla con violenti, ma non mortali, schiaffi: finché lei non svenne.
Dietro un cenno del capitano, un soldato lanciò una secchiata d’acqua sul viso di Ecyl. La ragazza rinvenne e agitò la testa per scrollarsi l’acqua di dosso. Col viso chino sollevò uno sguardo carico di odio verso il tamrai.
«Sei scontrosa e selvaggia. Ma io ho domato puledre ben più recalcitranti di te», sogghignò il capitano.
L’ufficiale tamrai, allungò la mano sul basso ventre di Ecyl. La ragazza tentò invano di evitare il tocco lascivo, mentre il capitano le parlò: «Ora, mia cara Ecyl, se non vuoi che io colga il tuo fiore», la voce di Zor Kul Dau era dolce e suadente, «e poi lo faccia prendere anche ai miei soldati, devi dirmi dove si trova il filliceno che hai salvato dal fiume. Se me lo dirai, ti ucciderò senza farti soffrire.»
«Non so dove sia il filliceno, ma anche se lo sapessi non te lo direi. Uccidimi pure», urlò la ragazza in tono sprezzante.
«Forse non sono stato chiaro», sogghignò il capitano tamrai, «ti ucciderò solo se me lo dirai, altrimenti diventerai il nostro strumento di piacere», disse in tono languido.
Ciò detto, il capitano iniziò a porre in atto la sua minaccia. Si avvicinò alla ragazza e cominciò ad accarezzarle le cosce con una mano, mentre con l’altra frugò tra i suoi seni. Ecyl tentò di divincolarsi, ma i legacci ai polsi e alle caviglie la tenevano ben ferma: per quanti tentativi facesse non poté sottrarsi ai suoi animaleschi tocchi. Il capitano era ormai eccitato dal contatto con la vellutata pelle della ragazza, avvicinò le labbra al morbido collo di Ecyl e iniziò a baciarlo. Con le mani prese le palma e le dita della ragazza e premette il bacino su quello di lei. Ecyl era ora in preda al terrore: il volto rigato dalle copiose lacrime.
«Allora, mi dici dove si trova il filliceno?» chiese ancora con voce suadente il capitano, mentre inseriva le dita fra quelle della ragazza.
«Non lo so! Non so dove sia», Ecyl pianse e implorò, in preda a un forte shock emotivo.
Il capitano strinse le dita della ragazza con le sue; Ecyl lo avvertì irrigidirsi. Zor Kul Dau si fermò: aveva sentito con le dita l’anello che la ragazza portava all’anulare della mano sinistra. Il tamrai guardò l’anello: un’avida luce brillò nei suoi occhi.
«Ma guarda che bell’anello!» esclamò il capitano, «Credo che questo, tra un po’, non ti servirà più. Sicuramente non hai niente in contrario se lo prendo io», aggiunse emettendo una profonda risata, mentre lo sfilava dal dito della ragazza.
Agor intanto stava agendo: aveva “sistemato” le due guardie poste all’ingresso della porta e le stava legando in un angolo nascosto alla base della torre. Il mago aveva abbandonato parte della sua naturale prudenza, spinto dalla paura che potesse accadere qualcosa di brutto ad Ecyl. Doveva entrare nella torre e liberarla ad ogni costo. Sapeva che dall’altra parte c’era gente spietata e senza scrupoli: la ragazza stava correndo un grave pericolo.
«Che mani delicate hai!» disse con scherno il capitano, «il tuo anello è così piccolo che riesco a metterlo solo nel mio mignolo», aggiunse infilando l’anello che aveva trafugato alla ragazza.
L’anello emise un sinistro bagliore rosso e sembrò dilatarsi e scorrere lieve sul suo dito; come sembrò scorrere nelle membra del capitano tamrai una forza e un potere sovrumano. Il capitano rise fragorosamente, avvertì il potere invadere la sua mente, si sentì un dio: immortale. Il suo cervello fu avvolto da vortici di un uragano incontrollabile.
«Posso fare tutto, posso fare tutto, sono onnipotente, onnipotente...», iniziò a ripetere, come inebetito.
I suoi soldati lo guardarono spaventati. Lo spavento si tramutò in terrore, quando lo sentirono emettere un urlo straziante e spaventoso. «Posso volare!» urlò col volto completamente trasfigurato e illuminato da una luce demoniaca.
Infine i soldati tamrai lo videro, con orrore, correre in direzione della feritoia. Poi non lo videro più: era scomparso nel vuoto. Il suo corpo si schiantò al suolo con fragore d’ossa rotte. Nel suo cranio si era aperta una fessura da cui fuoriusciva il contenuto grigio.
Agor lo vide atterrare a pochi passi, accanto a sé. Notò l’anello al suo dito e capì cosa gli fosse successo. Si affrettò a recuperare l’anello di Sinrasil e si nascose nell’attesa delle guardie. Agor era certo che queste sarebbero scese, di lì a poco, giù dalla torre, per controllare cos’era successo al capitano.
I tre soldati tamrai si guardarono tra loro rimanendo immobili per l’orrore e lo stupore. Quando si ripresero dal torpore, corsero tutti giù, dalle scale della torre, e si chinarono sul cadavere del loro capitano. Non c’era dubbio, era morto.
«Veik taik», sussurrò il mago puntando una mano verso di loro e agitando la punta delle dita. Una rete magica avvolse i soldati bloccandoli, erano di nuovo paralizzati: stavolta dalla magia.
Agor entrò nella torre e salì in fretta le scale raggiungendo la stanza dove si trovava Ecyl.
«Agas!? Cosa ci fai qui?» Ecyl era stupita di vedere il vecchio, ma n’era anche felice.
«A dopo le spiegazioni», le disse, mentre la slegava, «ora dobbiamo andare in un posto sicuro, qui a Filla. Ce la fate a camminare?»
«Sì. Credo di sì», rispose in un flebile sussurro la ragazza, mentre cercava di risistemare addosso il vestito che le era stato strappato.
«Allora, andiamo.»
Scesi a piano terra, Agor si assicurò che non ci fosse nessuno, oltre i soldati immobili.
Agor le fece cenno di aspettare sulla soglia del portone della torre. «Torno subito», le disse, mentre si avviò a recuperare Bora e Xinas.
Poco dopo tornò da Ecyl conducendo con le redini, i due cavalli.
Montati a cavallo i due procedettero al passo: Xinas davanti e Bora dietro.
Agor girò verso destra in direzione del tempio di Maelma. Poi oltrepassò il ponte sul canale, mentre un leggero tanfo raggiunse l’olfatto dei due cavalieri. I due proseguirono spediti, tenendo sempre i cavalli al passo, per non richiamare l’attenzione. Per questo motivo, appena fu possibile, Agor abbandonò la strada principale che portava alla Piazza Centrale e prese un vicolo che correva diagonalmente in direzione della rotonda piazza della Biblioteca Reale. Ecyl osservò ammirata lo splendido edificio, a pianta circolare, che occupava il centro della piazza. Il mago abbandonò la piazza e imboccò un’altra stretta strada, quasi dalla parte opposta al punto in cui erano entrati. Tre minuti dopo Agor scese da cavallo e bussò a un portone di un palazzo posto a circa duecento metri dalla piazza Centrale di Filla.
L’uomo che aprì la porta sembrò molto meravigliato di vedere Agor, ma anche felice. I due gli affidarono i cavalli: Ecyl notò la profonda pelata sulla testa dell’uomo abbastanza avanti con gli anni. Mentre questi andava a sistemarli nella stalla, Agor salì, seguito dalla ragazza, la scala che portava al piano di sopra.
Il mago aprì una delle porte presenti sul ballatoio e introdusse Ecyl in una stanza, quindi tirò una corda dietro la porta. Poco dopo bussarono alla porta e, all’invito ad entrare, si presentò un’attempata donna dall’aspetto florido e dai capelli scuri.
«Mara, accendi il fuoco e scalda dell’acqua», ordinò Agor, mentre faceva stendere Ecyl in un letto posto vicino al caminetto.
«Dove siamo?» chiese la ragazza guardandosi intorno nella stanza.
«Nella mia casa di Filla. Tranquilla, qui siamo al sicuro», le disse il vecchio, mentre la copriva con delle coperte. La ragazza era quasi nuda, visto i suoi vestiti strappati.
Quando Mara portò il catino di acqua calda, Agor prese dal suo zaino delle erbe e ne fece degli impacchi con cui iniziò a curare le ferite di Ecyl, in particolare sul viso che appariva tumefatto in vari punti.
«Avete letto il libro, mia principessa?» chiese il vecchio in un tono che non gli aveva mai sentito, quando si rivolgeva a lei.
«Perché mi chiami così Agas? Di che libro stai parlando?» chiese con stupore Ecyl, poi aggiunse non senza ironia: «Se ti riferisci al romanzo che mi hai dato, l’ho ormai letto tanti anni fa e più di una volta.»
«Sapete benissimo che parlo di quello nascosto alla base del pozzo», rispose tranquillamente il vecchio, mentre continuava ad usare i suoi impacchi sul viso della ragazza.
Ecyl aveva voglia di chiedere “ma tu cosa ne sai?”, si rese conto, però, che il vecchio ne sapeva più di lei in quella storia. Decise semplicemente di rispondere alla sua domanda.
«Sì, l’ho letto! Agas, ti prego però di continuare a chiamarmi Ecyl e di rivolgerti a me come facevi prima. Mi sento troppo frastornata per sopportare anche questo», lo scongiurò la ragazza.
«Come Vostra Altezza desidera», disse il mago, «cioè...»
Ecyl notò il suo imbarazzo e gli sorrise: «Preferirei essere chiamata come facevi sempre: dolce e leggiadra Ecyl.»
«Perdonatemi ma, per venti anni, ho usato quell’improprio modo di rivolgermi a voi, facendo forza su me stesso, per non tradirmi e tradirvi, mettendovi in pericolo», disse Agor.
«Che intendi dire?» Ecyl lo guardò con occhi sgranati, «Ma, ti prego, parlami come sempre hai fatto, sforzati anche ora», la voce di Ecyl aveva un tono implorante. La sua precedente vita era stata cancellata. Non voleva far morire la “vecchia” Ecyl definitivamente, cosa che questo comportamento ossequioso di Agas, sembrava voler portare.
«Va bene! Obbedisco al tuo desiderio», disse il mago, «È stata tua madre, a volere che ti seguissi e vegliassi su di te affinché non ti succedesse nulla. Tu mi conosci come il vecchio e debole Agas, in realtà io sono un potente mago: mi chiamo Agor Asrander.»
«Il mago del libro dell’Albero Sacro?» esclamò Ecyl sgranando gli occhi.
«Sì, mia principessa», disse Agor, «l’Albero Sacro è un antico dono degli elfi.»
«Ti prego Agas, cioè Agor. Chiamami solo Ecyl. Il pericolo di cui parli non è passato. È meglio che nessuno sappia o possa sospettare chi sono in realtà», forse Ecyl era riuscita a trovare un argomento più convincente per il vecchio mago.
«Hai ragione Ecyl! Gli anni passati nella tranquillità di Pewick mi hanno fatto perdere ogni istinto di prudenza», si rimproverò Agor.
«Non preoccuparti. Piuttosto dimmi, che n’è stato di mia madre? Perché mi ha dovuto abbandonare?» Ecyl porse le due domande con estrema paura, sapeva che la risposta avrebbe potuto stroncare la sua ultima speranza.
Agor abbassò gli occhi, e quelli di Ecyl s’inumidirono prima ancora di ascoltare la voce del mago: «La regina Ezianne era una donna forte e coraggiosa, oltre che bella. Il mio re non avrebbe potuto sceglierne un’altra migliore, dopo la morte della regina Katerina.»
«Perché hai detto “era”?», Ecyl iniziò a singhiozzare.
«Purtroppo morì, l’anno dopo che ti aveva lasciato. Straziata dal dolore di non averti potuta tenere tra le braccia, dal non poterti mostrare tutto il suo affetto di madre.», disse mestamente Agor, «Ma dopo ciò che sto per dirti, capirai quanto grande sia stato il suo amore per te, proprio quando ha dovuto rinunciare a te.»
«Perché mi ha dovuto lasciare?», ma Ecyl in cuor suo conosceva già la risposta.
«Per salvare la tua vita!», disse Agor, poi proseguì: «Dopo la morte della Regina Katerina e del figlio che portava in grembo, un crudele omicidio perpetrato dai tamrai, Inghard capì che i suoi nemici miravano al trono della Terra di Grund. Con l’assassinio i tamrai volevano impedirgli di avere un successore.
Per questo Re Inghard sposò di nascosto, alla presenza di pochissimi sudditi fidati, la principessa Ezianne di Briador.
Da questa unione nascesti tu Ecyl, a Riland, a casa mia. Il tuo virgulto era spuntato nell’Albero Sacro e da esso tu ottenesti che scorresse nel tuo sangue la Gil Vat, conosciuta come Forza dell’Acqua. Esisteva il pericolo concreto che le spie dell’impero di Tanh Man Ra potessero trovarti e perpetrare un nuovo crimine, uccidendoti.
La decisione infine fu presa. Saresti stata abbandonata sulle acque del fiume Narn. In acqua la Gil Vat avrebbe vegliato su di te e ti avrebbe portata lontana e senza lasciare tracce per i tuoi possibili assassini.
Questa decisione fu presa anche per una profezia di Arendel, regina degli elfi.»
Agor socchiuse gli occhi e intonò un melodioso canto elfico:
Ecyl lo ascoltò estasiata, la nenia le entrò nel cuore, pur non riuscendo a comprenderne le parole.
«Un canto bellissimo!», esclamò, «Ma cosa significa?»
«Traducendolo potrebbe suonare all’incirca così», continuò il mago:
«Una di questi due tallen vat saresti stata proprio tu, Ecyl.
Tua madre, la Regina Ezianne era disperata, ti stringeva forte e non voleva separarsi dalla sua piccola. Inghard le disse dolcemente che era il solo modo di salvarti, di non perderti per sempre.
Tua madre pretese da me un giuramento, altrimenti non ti avrebbe lasciato andare. Io avrei dovuto seguirti, da lontano, vegliando su di te, affinché non ti succedesse nulla. Non avrei dovuto dirti niente che potesse metterti in pericolo, finché non fosse giunto il momento di dirti la verità. Oggi questo momento è infine giunto. Perdonami mia principessa per averti tenuto nascosto questo segreto, ma l’ho fatto per un giuramento a tua madre e perché temevo per la tua vita.»
Poi Agor continuò, socchiudendo un attimo gli occhi, e con tono sommesso: «Ricordo ancora l’espressione di dolore di tua madre, quando depositò la cesta, addobbata come una culla, sulle acque del fiume Narn, ad Est di Riland, sulla sponda ricca degli ebani della foresta. Prima di lasciare la presa, guardò di nuovo me, e non l’avrebbe mai lasciata senza il mio giuramento e se io non fossi stato, immediatamente, pronto a partire per seguirti, lungo la sponda. Poi la regina guardò te, che agitavi tranquilla le manine e le sorridevi. Infine, sollecitata anche da re Inghard lo fece, lasciò la culla che si avviò dolcemente: non sarebbero state più le braccia di tua madre a cullarti, ma le acque del fiume. Una lacrima d’addio solcò il viso della regina Ezianne.»
Le guance di Ecyl furono rigate dalle limpide gocce che sgorgarono copiose dai suoi occhi. Tra i singhiozzi la ragazza, un po’ sbalordita, disse: «Riland?! Vorresti dire che ho percorso, senza perire, entrambe le Cascate di Twilly?»
«Sì. Oltre a me, dalla riva, c’era qualcos’altro che vegliava su di te.»
«Che cosa? O chi?», chiese Ecyl con la voce incrinata dalla paura e con un brivido che percorse la sua schiena.
«La Gil Vat», rispose Agor.
«Vuoi dire la Forza dell’Acqua?»
«Sì, mia dolce Ecyl.»
Ecyl buttò le braccia al collo del vecchio, sfogando tutte le sue emozioni con un pianto profondo. Il vecchio le accarezzo i capelli in maniera molto affettuosa e poi continuò: «La regina Ezianne volle anche mettere un suo ritratto nel Libro dell’Albero Sacro con una dedica e con il nome che aveva scelto per te: Ecyl. Solo i tuoi genitori ed io conoscevamo questo nome. La regina mi fece promettere che avrei fatto in modo di utilizzare il nome scelto da chi ti avrebbe raccolto, senza però sapere altro. Fui io a suggerire, come Agas, il nome Ecyl ai coniugi Chawt.»
«Ah, dimenticavo. Questo è tuo», disse Agor ridandogli l’anello.
«Me lo aveva preso il capitano. Ma quando l’ha messo al dito è come impazzito... cosa significa?»
«E’ una storia lunga! Riguarda il sangue versato dagli elfi nella Battaglia di Andra. Ora devi riposare, te la racconterò un altro giorno», e così detto il mago spense le candele e uscì dalla stanza. Ecyl si addormentò rimirando la fiamma del caminetto acceso.